Perché Francesco dice basta al Medio Evo: chi non accetta il Concilio è fuori dalla Chiesa

Il discorso che Francesco ha pronunciato all’incontro promosso dall’ufficio catechistico della Conferenza Episcopale Italiana fissa dei paletti chiari: il primo è che il Concilio Vaticano II non è un optional

Papa Francesco
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30 Gennaio 2021 - 16.03


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Francesco cambia passo. La pandemia ha cambiato tutto, anche nella Chiesa o, per meglio dire, per la Chiesa. E allora è il momento di mettere in chiaro alcune cose, badando bene a far sì che tutti, da Washington fino a Roma, capiscano bene. Il discorso che Francesco ha pronunciato oggi all’incontro promosso dall’ufficio catechistico della Conferenza Episcopale Italiana fissa infatti dei paletti chiari: il primo è che il Concilio Vaticano II non è un optional, chi non accetta il Concilio è fuori dalla Chiesa. La nostalgia del Medio Evo è acqua passata, anzi, finita.
Non c’è più da interpretare il Concilio, ma da attuarlo: “ Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio delle donne e degli uomini di ogg. Di parlare il linguaggio fuori dalla Chiesa, sì, di questo dobbiamo avere paura. Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non abbiamo paura. Non dobbiamo aver paura di elaborare strumenti nuovi”. 

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Dunque dalla barricate di una Chiesa impaurita dai tempi moderni, dalle novità e dai segni dei tempi, si passa a una Chiesa che non ha paura di questi nostri tempi. Il Covid impone un cambio di passo: “ In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati dalla pandemia, più volte si è riflettuto sul senso di appartenenza che sta alla base di una comunità. Il virus ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori, soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza. Ha messo in scacco prassi e abitudini consolidate e così ci provoca a ripensare il nostro essere comunità. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme – nessuno si salva da solo, uscirne insieme –, riabbracciando con più convinzione la comunità in cui viviamo. Perché la comunità non è un agglomerato di singoli, ma la famiglia in cui integrarsi, il luogo dove prendersi cura gli uni degli altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi verrà domani. Solo ritrovando il senso di comunità, ciascuno potrà trovare in pienezza la propria dignità. […] Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa parola: compassione”. 

Francesco non cita il caso penosissimo degli Stati Uniti, dove il disordine episcopale sembra assoluto e molte pulsioni pre-conciliari emergono chiaramente e con forza preoccupante. Forse, come ipotizzano i più qualificati, la decisione di Francesco di ricevere a Roma il cardinale di Chicago che ha pubblicamente contestato le parole e i metodi verticisti con cui il presidente della Conferenza Episcopale ha criticato Biden già nel giorno del suo insediamento possono presumere sviluppi imminenti. Ma il riferimento al gravissimo caso americano nel testo è solo implicito, non è esplicitato. 

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Quindi Francesco ha toccato più espressamente e direttamente i temi italiani e lo ha fatto la massima forza e chiarezza possibile, sebbene in poche parole. In un Paese provato, lacerato, impaurito, la Chiesa sembra incapace di trovare un bandolo nuovo per servire e aiutare la comunità nazionale. La rimozione che i vescovi italiani hanno effettuato delle indicazioni del papa in occasione del Convegno Ecclesiale di Firenze di ben 5 anni fa e oggi non sono più tollerabili. Non si può cincischiare in una situazione come questa:  “ Ho menzionato il Convegno di Firenze. Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convengo di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare”. La frantumazione culturale, la paura, la perdita del senso di comunità che questo tempo evidenzia non può essere affrontata che arrivano quando i buoi sono già tutti fuggiti. Ma cosa vuol dire un sinodo della Chiesa italiana? Il papa a Firenze parlò di sinodalità e di Chiesa in uscita missionaria. Su La Civiltà Cattolica nel settembre del 2019 padre Bartolomeo Sorge – prima di morire- ha descritto un’altra modello, opposto e che si potrebbe dire però “ancora visibile” : “ La prima tentazione è quella di riporre – ovviamente non a parole, ma nei fatti – la propria fiducia e sicurezza nelle strutture, nell’organizzazione, nella pianificazione perfetta elaborata a tavolino, finendo con legalizzare e burocratizzare la pastorale e col mortificarne ogni creatività. È la tentazione del pelagianesimo: credere che possiamo salvarci con i nostri soli sforzi. La seconda è la tentazione di rifugiarsi nello spiritualismo intimistico e disincarnato, che porta la Chiesa all’autoreferenzialità, a ripiegarsi su se stessa, a preoccuparsi soprattutto dei suoi problemi interni, a chiudersi tra le mura del tempio, ossessionata dall’osservanza delle norme canoniche. Questo conduce a svalutare il servizio dei fratelli e a frenare gli slanci dell’amore per gli altri: Ognuno pensi a salvare la propria anima!.” 

In piena pandemia tutto questo non è più ammissibile, ma bisogna tener conto della realtà sempre più pericolosa e che impone di affrontare le sfide dell’oggicon un sinodo. Ha scritto nello stesso articolo del 2019 padre Sorge: “  Un’altra difficile sfida – richiamata dal Papa anche a Firenze – meritevole di essere affrontata in un autorevole dibattito sinodale riguarda le implicazioni etiche e comportamentali dei fedeli, all’interno della crisi spirituale e culturale senza precedenti in cui si dibatte l’Italia. «La Chiesa – ha detto papa Francesco – sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini». Ci chiediamo: quale intervento autorevole la Chiesa italiana potrà pronunciare, alla luce del Vangelo e del magistero, sul fatto che milioni di fedeli – non esclusi sacerdoti e consacrati – condividano, o quanto meno appoggino, concezioni antropologiche e politiche inconciliabili con la visione evangelica dell’uomo e della società?” 

Tutto questo aiuta a capire il cambio di passo, qui per l’Italia, proposto oggi dal papa. Ed è stata sempre La Civiltà Cattolica, a firma del suo direttore Antonio Spadaro, a spiegare già nel 2019 il senso e la portata di questa visione: “Ecco il punto: soltanto un esercizio effettivo di sinodalità all’interno della Chiesa potrà aiutarci a leggere la nostra storia d’oggi e a fare discernimento. Che cos’è la sinodalità? Essa consiste nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva di tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa attraverso la discussione e il discernimento. Essa respinge ogni forma di clericalismo, incluso quello politico. La crisi della funzione storica delle élites – che fino a poco fa era riuscita a far dare alle democrazie occidentali il meglio di sé – deve aprirci gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura popolare della Chiesa, «popolo di Dio». Perché la sinodalità? Perché questo ampio coinvolgimento? Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto. Dopo anni in cui forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, e abbiamo immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo. Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi nei social networks, oltre che nel broadcasting personale di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la nostra Italia. A questo si aggiunga il fatto che il potere politico oggi ha anche ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto a quello che eravamo abituati: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici. Il «nemico», dunque, non è più solamente la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura, l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno la fiducia: nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali, nei giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa le parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti». Francesco proseguiva raccoman­dando la ricostruzione dei legami per favorire «l’amicizia sociale». Quindi, compito della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società”. Queste ricostruzioni dell’urgenza di un sinodo per l’Italia sono precedenti la pandemia, risalgono al 2019. Ma allora solo un vescovo, Domenico Pompili, vescovo di Rieti, ebbe la chiarezza necessaria per chiedere un sinodo. Oggi la pandemia rende l’urgenza ritardo che non può essere ulteriormente aggravato. 

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