Sulla giustizia molti italiani schiavi di una cultura arcaica non tanto diversa dalla sharia

Rudy Guede, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, è libero dopo 14 anni di reclusione ed un percorso rieducativo esemplare. Eppure è scattata la bava giustizialista

Aula di giustizia
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Aldo Luchi Modifica articolo

23 Novembre 2021 - 19.58


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La notizia è che Rudy Guede, condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, è libero dopo aver scontato 14 anni di reclusione ed un percorso rieducativo esemplare nel corso del quale si è laureato e ha collaborato attivamente, in regime di semilibertà, con il Centro STudi Criminologici di Viterbo.

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L’altra notizia – ma la definizione non è corretta –  è che immediatamente si solleva il coro di chi, a vario titolo ma con affermazioni del tutto identiche tra loro, grida allo scandalo per la sua liberazione (“doveva marcire in galera”, “l’abbreviato è uno schifo”, “14 anni sono troppo pochi”, “ci vorrebbe la pena di morte” ed altre simili amenità).

Ma questo, in fondo, non è strano. Perché siamo il Paese in cui rappresentanti forze politiche e commentatori televisivi fanno a gara nel suscitare la rabbia delle persone e l’insoddisfazione per come la Giustizia viene amministrata, il Paese in cui alcuni Pubblici Ministeri vengono ospitati nei talk show in prima serata ad incensare le proprie inchieste anche se appena smentite da una sentenza, il Paese che ha atteso ben cinque anni prima di emanare la Legge di recepimento di una Direttiva Europea (la Direttiva UE 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali) che vieta ai PM e agli inquirenti di rappresentare l’indagato come colpevole (come se non bastasse l’art. 27 comma 2° della Carta Costituzionale), il Paese in cui un (ormai ex) magistrato può andare nei salotti televisivi a dire impunemente, e senza contraddittorio, che non esistono innocenti, ma soltanto colpevoli non ancora scoperti.

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Insomma, ci scopriamo un Paese giustizialista, popolato da gente con la bava alla bocca e assetata di sangue e di cappio.

Certo, poi gli stessi soggetti si indignano per l’applicazione della Sharia in Paesi come l’Afghanistan o l’Iran o davanti all’emersione dei pestaggi nelle carceri di Sollicciano e Santa Maria Capua Vetere (per parlare soltanto dei casi più recenti), e sembrano non comprendere che la matrice culturale di questi fenomeni è esattamente la stessa dalla quale muovono le loro feroci critiche giustizialiste.

La matrice culturale è quella che vorrebbe assegnare alla pena una funzione retributiva, che la considera l’irrogazione di una sofferenza pari a quella causata con il reato, che affonda le sue radici nella legge del taglione dalla quale la sharia promana direttamente, che considera il condannato come un reietto ed il carcere come una forma di ostracismo, di privazione di ogni diritto. Una barbarie giuridica altamente diffusa, se soltanto si pensa che, stando al rapporto Censis del 2020, il 43% degli italiani si dice favorevole alla pena di morte.

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La stessa matrice culturale che non ammette che chiunque abbia violato la legge possa redimersi ed essere reinserito nella società o che i condannati all’ergastolo c.d. ostativo non possano essere destinatari di alcun tipo di beneficio.

Rudy Guede è libero, gran parte degli italiani, invece, è ancora schiava dei pregiudizi e di una cultura arcaica non dissimile dalla tanto avversata Sharia.

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