Una nuova “rotta della morte” insanguina il Mediterraneo. E’ la rotta libanese. La rotta che racconta la tragedia di guerre “dimenticate (la Siria) e di Stati in bancarotta (Il Libano). La rotta che, come le altre che solcano il Mediterraneo, chiamano in causa le responsabilità della comunità internazionale.
Una tragedia annunciata
Ne scrive (15 settembre) su La Stampa Francesca Mazzocchi, che quei luoghi della sofferenza conosce come pochi. “Mentre l’Occidente volgeva lo sguardo dall’altra parte, continuando a pagare le cambiali del consenso alla Turchia e alla Libia, la crisi economica, gli effetti della pandemia e l’onda lunga della guerra ucraina, hanno colpito Paesi che, già fragili, sono precipitati. È il caso del Libano. Paese che da anni, manda segnali – una volta ancora inascoltati – di una rotta migratoria che non poteva che diventare mortale.
Libano, primavera e estate 2022
Lo scorso aprile una barca, progettata per contenere una dozzina di persone e che ne trasportava 84, si è capovolta al largo delle coste libanesi vicino a Tripoli dopo essere stata intercettata dalla guardia costiera. Solo quaranta i sopravvissuti. Gli altri, tra cui almeno sei bambini, sono morti annegati. Solo una decina i corpi recuperati quando erano già in stato di avanzata decomposizione. Un membro dell’equipaggio di Aus Relief, sottomarino di ricerca e soccorso di una missione australiana, ha raccontato di aver visto in fondo al mare «una donna bloccata a metà di una finestra con in braccio il suo bambino… nel tentativo di proteggerlo».
All’inizio di giugno, l’esercito libanese ha arrestato 64 persone nel Nord del Paese che stavano tentando di salire a bordo di una nave di contrabbando diretta a Cipro. Tra loro c’erano diversi cittadini libanesi, spinti alla disperazione da gravi difficoltà economiche.
A fine agosto un barcone con a bordo un centinaio di rifugiati siriani è stato bloccato all’ingresso delle acque cipriote e riportato indietro in Libano sulla base di un controverso accordo tra Nicosia e Beirut che prevede che i profughi siriani siano respinti indietro se intercettati in mare. Più volte i funzionari delle organizzazioni umanitarie europee hanno accusato Cipro di respingimenti illegali e li hanno accusati di negare e chi è in fuga dalla guerra del diritto di presentare richiesta d’asilo. Nicosia non ci sta.
E risponde che il governo non rifiuta richiedenti asilo ma migranti economici. Nella guerra dei distinguo terminologici, uomini donne e bambini continuano a partire sempre più numerosi dal porto di Tripoli, a Nord del Libano. Scappano dall’inflazione, dalla disoccupazione, dall’assenza di cibo e carburante e medicine, da un sistema sanitario in rovina e da governo corrotti che in pochi anni hanno creato una tempesta perfetta di povertà e disperazione. Rivolte di piazza, crisi finanziaria, esplosione del porto e Covid19: crisi simultanee che hanno spinto all’esilio migliaia di giovani libanesi, professionisti, medici, insegnanti. Un Paese che, in pochi anni si è svuotato della sua classe media.
A dare il colpo di grazia è stata la guerra in Ucraina che, in un Paese come il Libano totalmente dipendente dalle importazioni, ha portato metà della popolazione a vivere al di sotto della soglia di povertà. Così chi resta deve sopravvivere con la valuta che ha perso in tre anni il 95% del suo valore. A luglio il salario minimo mensile aveva un valore di 23 dollari. Prima del crollo finanziario ne valeva 500. Significa non avere soldi per sfamare i propri figli, significa sentire di non avere più nulla da perdere, significa convincersi che se l’alternativa è morire di fame, tanto vale pagare un trafficante per essere traghettati verso il Paese Ue più vicino, quello a 160 chilometri dalle coste di Tripoli: Cipro.
I segnali inascoltati, le lezioni non imparate
Secondo l’Unhcr, il numero di persone che ha lasciato il Libano via mare è quasi raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020 ed è nuovamente aumentato del 70% nel 2022 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. La domanda da farsi è: c’erano segnali? Era possibile prevederlo? La risposta è due volte sì. Non solo c’erano segnali, ma c’erano numeri, statistiche e denunce.
Dopo il collasso economico del 2019-2020, le coste libanesi sono diventate punto di partenza di gommoni e barche dirette verso Cipro. Ma se prima a partire da Tripoli, la città portuale a Nord del Paese, erano per lo più rifugiati siriani o palestinesi sfiniti da anni di vita nelle tendopoli, frustrati dalla disoccupazione, dall’assenza di prospettiva di un ritorno a casa, a partire dall’estate del 2020, si sono uniti alla rotta anche i cittadini libanesi senza più prospettive. I numeri erano chiari già due estati fa, dati indicativi ma troppo bassi per fare notizia in un’Europa interessata solo a tamponare gli arrivi nel Mediterraneo centrale. Numeri non solo chiari ma in crescita in una rotta erroneamente considerata distante, come distante pareva la guerra siriana ormai al suo decimo anno.
I flussi migratori, però, non nascono mai come emergenze, ma come conseguenze di situazioni diventate croniche, abbandonate dall’attenzione (e dal denaro) internazionale e poi precipitate. Così è stato in Libano, dove nel 2020 i segni dei nuovi flussi che avrebbero attraversato tutte le sponde del Mediterraneo c’erano già. Bastava leggerli. In due settimane a cavallo tra agosto e settembre venti barche avevano lasciato le coste libanesi dirette a Cipro. Venti in 15 giorni.
Più di quante ne fossero partite complessivamente nei dodici mesi precedenti. Nello stesso periodo la guardia costiera cipriota aveva respinto e espulso trecento persone senza dare loro la possibilità di presentare richiesta d’asilo. A ottobre di quell’anno, dopo decine di respingimenti e morti in mare, Human Rights Watch pubblicò un lungo e dettagliato rapporto dando conto delle modalità di respingimento di Cipro
I ricercatori dopo mesi di raccolta di prove e testimonianze, sostennero che le autorità cipriote avessero più volte ignorato le richieste di asilo delle persone intercettate in mare e lo stesso fece la Kisa, un’organizzazione non governativa dell’isola che, sulla base delle statistiche della polizia locale, rese noto che le autorità cipriote avessero intercettato e respinto indietro mille persone su imbarcazioni irregolari in pochi mesi. Per i fortunati, quelli che sono riusciti a raggiungere l’isola, si sono aperte le porte del campo di Pournara a Kokkinotrimithia, un campo all’aperto, sporco, infestato di insetti, in cui l’acqua scarseggia, non c’è abbastanza cibo, ci sono quattro bagni ogni cento persone, le tende sono prive di elettricità e le quattro sezioni del campo invase da rifiuti. Un’immagine che ricorda il nostro hotspot di Lampedusa, le orribili condizioni dell’ormai chiuso campo di Moria a Lesbos. Esempi di una politica che di fronte a flussi prevedibili continua a mostrarsi impaurita e impreparata.[…]Due giorni fa la Banca centrale libanese ha annunciato di aver interrotto la fornitura di dollari per le importazioni di benzina.
Per un Paese la cui economia è sussidiata nei beni di prima necessità significa indebolire ancora una moneta che è già carta straccia. E se questo piega le famiglie libanesi, è facile immaginare cosa produca nelle famiglie dei due milioni di rifugiati siriani nel Paese. Gli ultimi tra gli ultimi, a cui è stato negato l’accesso al lavoro, all’assistenza sociale, all’istruzione. Gli ultimi tra gli ultimi in fuga da una guerra dimenticata, bambini come Loujin, profuga a quattro anni, quindi nata in esilio. Siriana che non ha mai visto la Siria. Siriana che mai la vedrà. Portata via dalla seconda guerra, quella contro la fame in Libano, dai suoi genitori che avevano voluto immaginare per lei un futuro come i bambini degli altri. I bambini che vivono in pace nei Paesi governati da chi respinge le loro barche e ignora le loro richieste d’aiuto”.
Così stanno le cose.
Quando ci chiederanno il conto
Giuseppe Cucchi è generale della riserva dell’Esercito, già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato, Ue e Ue, consigliere scientifico di Limes. E su Limes ha pubblicato uno scritto di straordinario interesse, perché riguarda un’area a noi vicina, e non solo geograficamente: il Mediterraneo.
Scrive Cucchi: “Anche se fino a questo momento nulla di irreversibilmente traumatico è ancora avvenuto sulle sponde arabe di un Mediterraneo allargato , questo è ormai il grido che si sta incessantemente levando da tali sponde verso una Europa – e al di la’ di essa verso un intero Occidente – che da troppo tempo stanno dimenticando i compagni di strada del bacino condiviso .
Nel 1989 , ben 33 anni fa per l’esattezza , con la caduta del Muro di Berlino noi ci trovammo di fronte ad un secondo “arco di crisi” , quello ad Est , che si apriva ed entrava in competizione con l’altro “arco di crisi ” , quello a Sud , cui da parecchio tempo eravamo confrontati , sottraendogli attenzione , interesse politico , aiuti militari, risorse economiche… Sotto la pressione contemporaneamente esercitata dagli Stati Uniti da un lato e dall’altro dai paesi europei cui il duplice crollo del Patto di Varsavia prima e dell’Unione Sovietica poi aveva restituito la libertà , l’Europa finì così rapidamente col preoccuparsi soltanto di donare sicurezza e benessere alla sua area centrosettentrionale di recente recuperata , dimenticando rapidamente le sue connessioni con un Sud ed un Est Mediterraneo che si facevano sempre più inquieti .
Si trattò , tra l’altro , di un processo che riscosse una approvazione pressoché generalizzata , al punto tale che nemmeno i grandi paesi della Europa Meridionale , come l’Italia e la Spagna , nonché per molti versi anche la Francia – che benché non lo ammetta è decisamente mediterranea in tutta la sua parte a sud della Loira – non ritennero opportuno protestare con una decisione tale da cambiare sostanzialmente un orientamento che avrebbe finito col tempo col rivelarsi estremamente pericoloso .
Agli arabi, che iniziavano già più di trenta anni fa a chiederci “E noi ?” fu quindi risposto di attendere con pazienza il momento in cui l’Occidente , dopo aver assicurato la propria frontiera ad est , avrebbe avuto il modo , e le risorse , per occuparsi anche di quanto succedeva nel bacino mediterraneo .
La risposta, almeno momentaneamente accettata, inizio però con gli anni a perdere progressivamente di credibilità,, un processo che poi si accelerò nel momento in cui gli europei non dimostrarono alcuna inclinazione a sostituirsi agli Stati Uniti che nel loro progressivo concentrarsi sull’area del Pacifico avevano sperato di poter delegare agli alleati Nato la gestione dei problemi mediterranei .
In quegli anni , assurdamente , l’unica vera iniziativa Europea nel bacino fu anzi l’azione franco britannica contro Gheddafi , culminata con un conflitto che non ebbe mai una precisa conclusione , ma in compenso eliminò uno dei pilastri di stabilità dell’intera area .
L’abbandono totale , protrattosi per un tempo troppo lungo , portò così , poco più di dieci anni fa , alla stagione delle “primavere arabe ” , disperate rivolte del pane – ma non soltanto di quello ! – che non a caso colpirono con particolare durezza i paesi che per forma di Governo e contatti internazionali risultavano più vicini all’Occidente. Si trattava di un primo messaggio, un “E noi?” chiarissimo, di cui avremmo dovuto tenere il debito conto, ma che invece fingemmo di non comprendere. Il risultato fu lo scatenarsi di una competizione , una corsa ad occupare il vuoto di potere esistente nell’area , che ebbe come protagonisti maggiori la Cina che acquistò nel bacino mediterraneo tutto ciò che poteva acquistare , Stati compresi , la Turchia , che diede via libera alle sue frustrazioni neo ottomane , e infine la Russia che , grazie alla sanguinaria e criminale disinvoltura dei mercenari della Wagner , si ritagliò un ruolo di potere prima in Siria ed in Libia e successivamente anche in parte del Sahel.
Con tutto questo rimaneva comunque viva in tutti gli Stati arabi mediterranei la speranza che una volta terminato il suo compito ad Est l’Occidente si ricordasse finalmente dei suoi compagni di strada meridionali. In un certo senso tale speranza era così viva e forte da consentire loro di procedere malgrado il difficilissimo periodo di crisi politica ed economica che pressoché tutti stavano attraversando. Nel Maghreb infatti la tensione fra Marocco ed Algeria sembra crescere oggi di giorno in giorno, mentre ciascuno dei due Stati cerca di alimentare le istanze separatiste delle altrui minoranze.
La Tunisia sta inoltre per affrontare un referendum istituzionale che potrebbe rivelarsi difficile, mentre in Libia si confrontano di nuovo due distinti Governi, una situazione che è un ulteriore passo avanti verso la definitiva spartizione del Paese. Non vanno meglio le cose in Egitto, ove le difficoltà finanziarie hanno costretto al-Sisi a ricorrere di nuovo ad un aiuto che gli Stati del Golfo certo concederanno …ma a quale prezzo?
O in Libano che anni di crisi economica hanno inchiodato nel terribile ruolo di “Stato fallito”. In Giordania poi la famiglia reale, colonna dell’unità nazionale , è spaccata in due da una faida dinastica senza esclusione di colpi .
La Siria attende nel frattempo con timore una ulteriore recrudescenza del mai concluso conflitto fra Turchia e curdi …e si potrebbe continuare .
Su tutto questo cade adesso la tegola del blocco dell’esportazione del grano ucraino, con tutti gli effetti che l’episodio potrà avere sui maggiori consumatori, in particolare Tunisia ed Egitto. Al di là e prima di essa vi è però comunque da considerare come la attuale situazione bellica chiarisca a tutti i paesi delle altre sponde mediterranee, senza alcuna possibilità di dubbio , come per anni ed anni il rischio sia che tutte le attenzioni e le risorse dell’Occidente rimangano concentrate sull’Est europeo . Vi sembrerebbe quindi strano se a questo punto i nostri amici d’oltremare cominciassero e gridare “E noi? E NOI?” con voce progressivamente sempre più forte?”.
Così il generale Cucchi.
Quel “Noi” bussa alle nostre porte. E presto o tardi ci chiederà conto delle politiche praticate, l’esternalizzazione delle frontiere, i respingimenti, i lager in funzione h24 con i soldi erogati dall’Europa (e dall’Italia) perché altri facciano il lavoro sporco al posto nostro. Politiche he hanno contribuito a fare del Mediterraneo il “mare della morte”, e il Nord Africa e il Medio Oriente polveriere pronte a esplodere. I segnali ci sono tutti. Ma non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.
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