Migranti e guerra alle Ong: il ministro-prefetto Piantedosi prepara il bis

Il ministro-prefetto Piantedosi concede il bis e rimette mano ai famigerati decreti sicurezza che lo stesso ministro-prefetto aveva congegnato quando era tra i più stretti collaboratori di Matteo Salvini al Viminale.

Migranti e guerra alle Ong: il ministro-prefetto Piantedosi prepara il bis
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14 Novembre 2022 - 16.19


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“Il postino bussa sempre due volte”. “L’assassino torna sempre sul luogo del delitto”. Usate la metafora cinefila che più vi aggrada per raccontare una realtà inquietante: il ministro-prefetto concede il bis e rimette mano ai famigerati decreti sicurezza che lo stesso ministro-prefetto aveva congegnato quando era tra i più stretti collaboratori di Matteo Salvini al Viminale.

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Il piano anti Ong

Narrano agenzie stampa e retroscenisti bene informati che  il piano del ministero dell’Interno, guidato da Matteo Piantedosi, è quello di rafforzare gli accordi bilaterali per i flussi e i rimpatri. Se le Ong non firmeranno e rispetteranno un codice di condotta per entrare nelle acque italiane, andranno incontro a sequestri e sanzioni. Per cominciare, le Ong che vorranno attraccare nei porti italiani dovranno dimostrare di aver soccorso imbarcazioni a rischio naufragio o comunque in serio e comprovato pericolo. In caso contrario sarà negato l’approdo e, se la nave violerà il divieto, andrà incontro a una sanzione amministrativa fino al sequestro dell’imbarcazione. Mercoledì il ministro Piantedosi riferirà in Parlamento sullo scontro diplomatico con la Francia e si attende dunque la conferma sulla volontà del governo di procedere su due binari paralleli: gli accordi bilaterali con i Paesi d’origine dei migranti e il codice per le navi private. La tesi italiana, che sarà ribadita, è che Roma non aveva emesso alcun divieto per la nave Ocean Viking, mentre è stata la Ong a decidere di dirigersi verso la Francia, non avendo ottenuto risposta alla richiesta di porto sicuro.

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Nuovi decreti sicurezza: multe e sequestri.

L’intenzione del governo Meloni sembra dunque quello di ripartire dai decreti sicurezza firmati quattro anni fa dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini, con l’attuale capo del Viminale che invece era capo di gabinetto. Quelli promulgati quando il capo di gabinetto di Salvini al Viminale era l’attuale ministro Matteo Piantedosi. Le multe per le Ong potrebbero arrivare fino a un milione di euro, con sequestro della nave utilizzata per il soccorso e il trasporto dei migranti. Nella legge 77 dell’agosto 2019 era prevista inoltre la confisca “in caso di violazione del divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane”. Il ministero punta insomma a smorzare in ogni modo le attività delle imbarcazioni che non si coordinano.

 Accordi, controlli e flussi 

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L’Italia preme per la revisione di accordi sul ricollocamento dei richiedenti asilo che finora non sono state rispettate. Al vertice straordinario dei ministri dell’Interno europei convocato a fine mese dalla Commissione Ue, il governo avanzerà la richiesta di un “piano per l’Africa” e un impegno formale a sostenere gli Stati di partenza dei migranti con progetti di sviluppo sostenuti dalle organizzazioni internazionali. Inclusi contributi economici e strumenti per rafforzare i controlli alle frontiere interne di Libia e Tunisia. In questo filone si inserisce anche la riattivazione di quegli accordi bilaterali con Paesi come Marocco, Niger e Nigeria per garantire flussi regolari nel Mediterraneo e il rimpatrio per chi non ha i requisiti. L’idea è quella di utilizzare il Team Europe, il progetto europeo ideato durante la pandemia Covid per intervenire sulle situazioni di emergenza. L’Italia chiede un coinvolgimento anche dei Paesi africani, in modo da destinare loro “il 10% delle risorse già allocate”.

 Il dialogo con l’Europa  

Un altro punto fondamentale è il dialogo con le istituzioni europee e con gli Stati membri, a partire dalla Francia. Pena un possibile isolamento dell’Italia in ambito Ue, come paventato dalla stessa Giorgia Meloni. La Germania è stata la prima a rassicurare il nostro Paese, garantendo il suo sostegno “fino a quando l’Italia garantirà l’accoglienza” alle persone salvate in mare. Il governo incontra però le maggiori resistenze nel momento in cui vuole intervenire sugli accordi internazionali, a partire dal Trattato di Dublino.

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Questa è la Libia.

La raccontano due giornalisti tra i più preparati, documentati sul tema: Nello Scavo e Francesca Mannocchi.

Scrive Scavo su Avvenire: «Ulteriori richieste di mandato di cattura sono state presentate ai giudici indipendenti della Corte penale internazionale». Per la prima volta un procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) si è recato in Libia e da Tripoli Kharim Khan ha annunciato al Consiglio di Sicurezza di avere emesso numerosi mandati per crimini di guerra, crimini contro i diritti umani e crimini contro i migranti. I nomi dei destinatari sono ancora coperti da riservatezza, in attesa che il Tribunale dell’Aja convalidi la richiesta della procura. Quando le richieste diventeranno ordini d’arresto in campo internazionale, molti governi – tra cui Italia, Malta, Francia, Turchia, Russia – avranno più di un imbarazzo a cooperare nella cattura di personaggi con cui non sono mancate interessate strette di mano.

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Da quanto trapela, le richieste riguardano soggetti già sottoposti a sanzioni dalle Nazioni Unite, dall’Ue e dal Dipartimento di Stato Usa. Una indiretta conferma arriva proprio dal report consegnato all’Onu. «Coloro che cercano di trafficare e sfruttare i migranti e i rifugiati – si legge – prendono di mira le persone più vulnerabili, che non hanno o hanno pochissima capacità di far valere i propri diritti umani fondamentali». Fino ad aprile di quest’anno, aprire indagini dell’Aja sui trafficanti era risultato quasi impossibile, poiché la Corte penale era stata autorizzata a procedere solo per crimini di guerra. Ma ora il procuratore Karim Khan ha ribadito che secondo «una valutazione preliminare dell’Ufficio, i crimini contro i migranti in Libia possono costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra». I boss del traffico di esseri umani, armi, petrolio e droga erano riusciti a sfuggire alla giurisdizione internazionale proprio perché apparentemente slegati dai crimini commessi durante gli scontri, ma gli investigatori sono riusciti a dimostrare che la filiera della tortura e dell’estorsione altro non è che una redditizia arma di guerra adoperata dalle milizie coinvolte direttamente nel conflitto.

Khan è stato perentorio: «È un obbligo collettivo garantire che i responsabili di tali crimini siano chiamati a risponderne». Tutti i boss su cui si indaga sono a capo di clan che si spartiscono il potere: dall’esercito alla guardia costiera, dalla «polizia petrolifera» agli squadroni della morte a servizio del generale Haftar, il padrone della Cirenaica da sempre in lotta con i gruppi della Tripolitania. «Abbiamo visto vittime in tutte le parti della Libia, da Bengasi, da Derna, da Tajura o Murzuk o Tawergha», ha raccontato il procuratore che poi si è commosso riferendo dell’incontro con i familiari dei prigionieri uccisi per ordine degli uomini di Haftar e gettati nelle fosse comuni di Tarhuna. «Finora sono stati recuperati 250 corpi e ne sono stati identificati molti meno», ha aggiunto Khan. «Ho incontrato un uomo che ha perso 24 membri della sua famiglia. Una donna ne aveva persi 15. Un’altra – ha riferito il procuratore – chiedeva solo di poter sapere dove si trovano i resti del figlio per avere una tomba dove recarsi a piangere». Perché si arrivi in fondo serve la cooperazione dei giudici locali, a cominciare da quelli italiani. «La Corte penale internazionale non è un tribunale apicale, è un hub – ha spiegato Khan -. E dobbiamo lavorare insieme per assicurarci che ci sia meno spazio per l’impunità e maggiori sforzi di responsabilità». 

Sono richieste presentate «in modo confidenziale – ha spiegato Karim Khan -, e spetta ai giudici decidere. Perciò non posso parlare in termini più espliciti». Non è un punto di arrivo: «Presenteremo ulteriori richieste d’arresto, perché le vittime vogliono vedere l’azione della giustizia e le prove sono ormai disponibili».

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Così Scavo.

Racconta Francesca Mannocchi su La Stampa: “A ottobre a Sabratha, in Libia, a settanta chilometri dalla capitale Tripoli, sono stati ritrovati i corpi di quindici persone migranti. Alcuni giacevano sulla spiaggia, altri erano carbonizzati accanto ai resti di una barca su cui, con tutta probabilità, stavano cercando di attraversare il Mediterraneo e raggiungere le coste europee. A distanza di più di un mese poco si sa sulla dinamica dei fatti, nonostante le richieste dell’Unsmil, la missione di supporto delle Nazioni unite in Libia, che ha condannato gli omicidi, ribadito che la tragedia fosse un «chiaro promemoria della mancanza di protezione affrontata dai migranti in Libia» e chiesto chiarezza e indagini «tempestive, indipendenti e trasparenti». Non è la prima volta che sulle coste libiche si contano i morti, non sarà l’ultima. Non è la prima volta che le Nazioni Unite si appellano alle istituzioni del paese nordafricano, non sarà l’ultima che resteranno lettera morta, perché in Libia di tempestivo, indipendente e trasparente, c’è ben poco. Secondo gli attivisti per i diritti umani e i media libici, le persone migranti sarebbero morte per lo scontro armato tra gruppi di trafficanti rivali, una delle milizie avrebbe dato fuoco alla barca come ritorsione, ennesimo tragico epilogo dell’eterna disputa sul controllo di una delle aree da cui parte il maggior numero di gommoni diretti in Italia, un’area in cui il potere è sempre quello delle armi e dove sono più strette le connivenze tra trafficanti e istituzioni. 

Le stesse istituzioni che l’Italia, solo due settimane fa, è tornata a finanziare con il tacito rinnovo del Memorandum d’Intesa del 2017, le stesse istituzioni a cui faceva implicito riferimento il ministro degli Esteri Antonio Tajani quando, intervistato da Lucia Annunziata, ha detto «come si è investito in Turchia così si potrebbe fare in Libia e in altri Paesi da dove partono i migranti». Investire, cioè esternalizzare i confini, cioè pagare affinché le persone non lascino il Nordafrica, pagare non importa chi, non importa quanto, purché si fermino le partenze. Dopo la crisi diplomatica con la Francia sulla gestione della nave Ocean Viking e alla vigilia del Consiglio dei ministri esteri di oggi sul tema immigrazione, Tajani ribadisce la linea italiana: «Non c’è nulla da riagganciare con i francesi, sono loro che hanno reagito in modo sproporzionato». Ricollocamenti, rispetto degli accordi, strategia europea condivisa, cioè «un piano Marshall per l’Africa per non avere in futuro milioni di migranti». Investire dall’altra parte del mare è sempre un buon auspicio. Così come lo sarebbe il principio di «aiutarli a casa loro». Il punto è sempre lo stesso: come. Ovvero, in mano di chi vanno a finire i soldi che escono dalle casse dei nostri Stati, attraversano il mare in direzione 

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