I familiari delle vittime l’hanno chiamata anche l”Ustica del mare’: nessun colpevole, tanti misteri. Di certo è la più grande tragedia della marina mercantile italiana: 140 morti, 75 passeggeri e 65 membri dell’equipaggio, un unico sopravvissuto, il mozzo Alessio Bertrand che si salvò rimanendo aggrappato a una balaustra e che ha scelto l’oblio: “Non voglio parlare, perché se parlo sto male”.
Sono passati tanti anni dalla tragedia del Moby Prince, il traghetto della Navarma che alle 22:03 del 10 aprile del 1991 mollò gli ormeggi a Livorno diretto a Olbia. Meno di mezz’ora dopo, quando ancora si trovava nella rada del porto toscano, la collisione con la petroliera Agip Abruzzo, la prima nave ad essere soccorsa, nessuna vittima tra quanti erano a bordo. Per quasi un’ora invece nessuno si accorse che il Moby era alla deriva completamente avvolto dalle fiamme. Dal traghetto fu lanciato, alle 22:26, il may day: “Siamo in collisione…siamo in fiamme…occorrono i vigili del fuoco…compamare se non ci aiuti prendiamo fuoco”.
Ma alla sala radio della capitaneria di porto di Livorno arrivò un segnale debolissimo e non fu sentito. Diverse le risposte dei consulenti su quanto durò la vita dopo la collisione: meno di 20 minuti per la perizia disposta dal tribunale, ore secondo gli esperti delle parti civili. Errore umano e nebbia, le cause del disastro per i magistrati che via via si sono occupati della tragedia: tre le inchieste, due i processi.
Una verità giuridica che non ha mai accontentato i familiari delle vittime – riuniti nelle associazioni ’10 aprile’, presieduta da Luchino Chessa, uno dei figli del comandante del Moby Ugo Chessa, e ‘140’, guidata da Loris Rispoli che perse la sorella Liana – che ora si aggrappano alla commissione parlamentare d’inchiesta, istituita l’anno scorso, per chiedere e ottenere finalmente giustizia, per chiarire i tanti dubbi sul perchè della strage. Per la quale si indagò anche su una possibile esplosione per un ordigno a bordo del Moby mentre inchieste giornalistiche ipotizzarono pure collegamenti con il delitto di Ilaria Alpi.
La prima indagine, che puntò appunto sull’incidente e su un improvviso banco di nebbia che nascose la petroliera alla vista del traghetto e il ritardo nei soccorsi, si concluse con l’assoluzione dei quattro imputati: il terzo ufficiale dell’Agip Abruzzo Valentino Rolla, accusato di non aver segnalato la petroliera alla fonda con i dispositivi antinebbia, Angelo Cedro, comandante in seconda della capitaneria di porto e l’ufficiale di guardia Lorenzo Checcacci, imputati per non avere attivato i soccorsi con tempestività, e Gianluigi Spartano, marinaio di leva, di turno alla radio, a cui venne contestato di non aver trasmesso la richiesta di soccorso.
E anche laddove ci fu chi si autoaccusò finì in assoluzione: è il presunto tentativo di depistaggio ammesso dal nostromo del Moby Prince Ciro Di Lauro – sbarcato poco prima dell’ultimo viaggio della nave – che chiamò in causa anche un ispettore della compagnia, Pasquale D’Orsi. Raccontò di essere salito a bordo subito dopo che il relitto fu riportato in porto e di aver cercato di manomettere la leva del timone per spostarlo da manuale ad automatico e scaricare la colpa sul comandante. Quell’azione fraudolenta in primo grado fu accertata anche processualmente ma ritenuta non punibile perché non modificò la timoneria già compromessa dall’incendio. In appello l’assoluzione perché “il fatto non sussiste”.
Archiviata senza colpevoli e senza accertare fatti nuovi anche l’inchiesta-bis conclusasi anni fa. Fu aperta su istanza dell’avvocato Carlo Palermo, legale di Chessa, che prospettava un complesso scenario con navi militari e militarizzate americane, di rientro dalla prima guerra del Golfo, impegnate a movimentare armi nel porto livornese. Indizi che però non hanno trovato riscontri secondo i magistrati a cui giudizio quanto accadde al Moby Prince, che “navigava senza le necessarie misure di sicurezza”, fu dovuto a errore umano e nebbia.