Migranti lasciati morire: i governanti europei come i generali fascisti argentini

Di fronte alle immagini scioccanti del padre che è morto col suo bambino al fianco, di tre o quattro anni

Migranti lasciati morire: i governanti europei come i generali fascisti argentini
Bambina trovata morta su una spiaggia tunisina
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

27 Luglio 2023 - 14.13


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Nello Scavo è un giornalista coraggioso. Che è molto di più di essere un bravo giornalista, quale lui è. Coraggioso per le inchieste che ha portato avanti, coraggioso per aver sfidato i potenti di turno senza fare sconti a nessuno. Pochi come lui – un altro coraggioso è Sergio Scandura – hanno svelato le trame che stanno dietro le stragi impunite di migranti nel Mediterraneo, denunciando complicità, connivenze, responsabilità politiche e governative. 

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Come Videla

Di fronte alle immagini scioccanti del padre che è morto col suo bambino al fianco, di tre o quattro anni. Quasi una fotocopia dell’immagine che ha fatto il giro del mondo la settimana scorsa, con la donna schiantata dal caldo insieme a sua figlia, rannicchiata accanto a lei, morte nel deserto al confine tra Tunisia e Libia, di fronte a questo scempio di vite umane, Scavo ha scritto un tweet nel quale paragona queste morti alle morti dei desaparecidos argentini, gettati in mare dagli aerei del dittatore Videla. Ha aggiunto l’inviato di Avvenire che stavolta i delitti hanno un mandante: i governi europei.

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Questa è la verità. Che Globalist non smetterà mai, mai, di denunciare. Se un giorno ci sarà una “Norimberga del Mediterraneo”, sui banchi degli imputati dovranno fare cattiva mostra di sé i governanti europei che hanno permesso questi crimini contro l’umanità. 

Crimini impuniti

Decine di migranti subsahariani hanno lanciato appelli per essere soccorsi in una zona del deserto tra la Libia e la Tunisia dove da alcune settimane le autorità tunisine li hanno deportati lasciandoli senza niente. “Stiamo morendo, stiamo morendo di minuto in minuto”, ha detto un uomo nigeriano di 43 che ha voluto essere indicato solo con il suo nome, George. “Per favore, vi imploro, portateci via da qui, venite e salvateci da questo posto”. 

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Il 25 luglio il ministro dell’interno libico ha dichiarato che sono stati trovati i cadaveri di cinque migranti africani vicino al confine con la Tunisia. E secondo le guardie di frontiera, i migranti e gli operatori delle Ong questo gruppo di quasi 140 migranti subsahariani è solo l’ultimo di una serie di persone deportate dalla Tunisia ai confini con la Libia o l’Algeria. 

“Non sappiamo dove ci troviamo. Siamo senza cibo e senza acqua”, ha continuato George parlando da dietro le reti e il filo spinato che delimitano un campo per migranti a 30 metri dal posto di frontiera di Ras Jedir, sulla costa. L’uomo ha detto di aver lavorato come barbiere per un anno a mezzo nella città tunisina di Sfax, dove ha lasciato la moglie con un figlio piccolo: “La polizia tunisina ci ha puntato contro le armi e ha detto che siamo terroristi”. 

Abbandonati nel nulla
Una volta lasciati alla frontiera, le autorità libiche impediscono ai migranti di entrare nel territorio, tenendoli bloccati nel nulla, negli stessi giorni in cui il Nord Africa e il Mediterraneo sono colpiti da un caldo estremo. 

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Un’altra migrante, che fornisce solo il suo nome, Fatima, 36 anni, proveniente dal Niger, racconta che i militari tunisini “ci hanno tolto tutto”, inclusi i telefoni, prima di lasciarli lì. Alcuni mostrano piccoli pezzi di carta con messaggi scritti a mano, uno chiede aiuto all’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), in un altro si legge: “Siamo esseri umani”. 

All’inizio di luglio, centinaia di migranti dell’Africa subsahariana sono stati deportati da Sfax in seguito ad attacchi razzisti compiuti contro di loro in seguito alla morte di un tunisino avvenuta in uno scontro tra abitanti e migranti.

Nel suo punto più vicino all’Italia, nei pressi di Sfax, la Tunisia dista solo 130 chilometri via mare dall’isola di Lampedusa, e dalle sue coste partono decine di migranti e profughi che cercano di arrivare in Europa affrontando pericolosi traversate su imbarcazioni di fortuna. 

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Mubarak Adam Mohamad, 24, spiega di essere fuggito dalla guerra in Sudan verso la Libia prima di raggiungere la Tunisia: “Mi ha arrestato la polizia di Sfax e poi mi hanno portato qui con la forza”, racconta lanciando un appello “alle organizzazioni locali e internazionali” perché vengano a salvarli. 

L’associazione umanitaria Medici del mondo ha chiesto alle autorità tunisine di facilitare l’accesso dei soccorsi: “Queste persone si trovano in una situazione di estrema vulnerabilità”, dichiara un comunicato. L’ong
Human rights watch afferma che nel mese di luglio almeno 1.200 persone dell’Africa subsahariana sono state “espulse o traferite con la forza dalle forze di sicurezza tunisine” nel deserto al confine con la Libia e l’Algeria. 

Alla metà di luglio, la Mezzaluna rossa tunisina ha dichiarato di aver soccorso almeno 630 migranti portati dopo il 3 luglio a Ras Jedir, al nord di Al Assah. Attraverso l’organizzazione umanitaria, i libici hanno fatto arrivare un po’ di cibo e di acqua che i migranti dividono tra loro. 

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Bilancio agghiacciante

In poco più di 6 mesi un totale di 901 corpi di migranti morti in mare. È il numero che racconta la portata della strage in corso in Tunisia. Dall’inizio dell’anno al 20 luglio le autorità hanno recuperato al largo delle coste del Paese un totale di 901 cadaveri. Il dato è stato riferito in Parlamento dal ministro dell’Interno tunisino, Kamel Feki, precisando che tra le vittime ci sono 36 cittadini tunisini e 267 migranti stranieri, mentre non è stato possibile identificare il resto dei cadaveri. Secondo il ministro la maggior parte delle barche che trasportavano questi migranti erano partite dalla costa della città meridionale di Sfax.

 “Le operazioni per contrastare il fenomeno delle migrazioni illegali via terra e via mare hanno mostrato un aumento del 244% dei migranti stranieri rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”, ha detto ancora il ministro, secondo il quale sono “decuplicate le operazioni di soccorso degli stranieri che hanno tentato di varcare le frontiere marittime e terrestri, in tutto 15.327“. Feki però ha assicurato che “l’impegno per la sicurezza avrà un impatto significativo sul calo del numero di migranti stranieri nei prossimi giorni, attraverso politiche di sicurezza, controllo delle frontiere terrestri e chiusura di rotte illegali per limitare l’aumento dei migranti subsahariani che intendono fermarsi in Tunisia o partire verso le coste europee“.

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E’ la voce del regime che ha scatenato la caccia al nero, che deporta i migranti nel deserto, facendoli morire di fame e di sete. Un regime, quello del presidente Kais Saied, sostenuto dall’Europa ed esaltato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

La storia di Fato e della sua bimba

Ne scrive, mirabilmente, don Mattia Ferrari su La Stampa: “Hanno finalmente un volto, un nome e una storia la donna e la bambina deportate nel deserto insieme agli altri migranti e morte di sete, la cui foto nei giorni scorsi ha fatto il giro del mondo. 

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La donna si chiama Fati Dosso e nasce 30 anni fa in Costa d’Avorio. Si trasferisce in Libia, dove vive per 5 anni. Suo marito viene dal Camerun. Insieme 6 anni fa danno alla luce la piccola Marie. A causa della situazione di grave pericolo in Libia, tentano più volte di attraversare il Mediterraneo, ma vengono sempre catturati in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica, finanziata dall’Italia e dall’Europa sulla base degli accordi del 2017 e poi sempre rinnovati. Fati, suo marito e Marie si arrendono e vanno in Tunisia. Nelle scorse settimane però all’improvviso vengono prelevati dai militari. L’Europa, su spinta dell’Italia, ha iniziato a siglare il Memorandum con la Tunisia per dare soldi in cambio del contenimento dei migranti e in questo contesto le milizie tunisine hanno iniziato a catturare migranti e a deportarli nelle zone desertiche al confine con la Libia. Intrappolati nel deserto, il marito di Fati va disperatamente a cercare acqua per loro, e a quel punto di lui si perdono le tracce. Fati e la piccola Marie non sopravvivono: finiscono la loro vita così, abbracciate, uccise dalla sete, uccise dalle deportazioni delle milizie tunisine, uccise dalla violenza della Fortezza Europa. 

E sono solo alcune tra le vittime di questi giorni uccise in seguito alla deportazione delle milizie tunisine. Dai migranti intrappolati continuano ad arrivare audio in cui si sentono bambini che piangono e i deportati supplicano: «Stiamo morendo uno dopo l’altro. Aiutateci, non ci abbandonate qui». A fronte di questa supplica, l’unico che ha risposto prontamente alle richieste di aiuto dei migranti è Papa Francesco, che nell’Angelus domenica ha fatto appello per la loro salvezza. I governi procedono spediti su queste politiche e sulla ratifica del Memorandum in cui non è previsto il rispetto dei diritti umani, mentre larga parte delle opposizioni reagisce con relativa debolezza, al punto che su Avvenire Marco Iasevoli ha paventato il rischio di una sorta di «larghe intese del cinismo e della realpolitik» in Italia e in Europa. Davanti a tutto questo, possiamo ancora dirci umani? Per chi ha fede, possiamo ancora dirci cristiani? 

Per giustificare questo cinismo i potenti usano la solita scusa: non c’è alternativa. La bugia più grande di questa epoca storica è farci credere che non sia possibile un altro mondo. Invece l’alternativa c’è e si è visto anche nel contro-vertice di domenica scorsa, organizzato da Mediterranea e Refugees in Libya, che ha visto gli interventi di attivisti di vari Paesi africani ed europei e dei migranti stessi. Il controvertice si è svolto a Spin Time, il palazzo romano occupato dove convivono, in una grande e gioiosa comunità, circa 400 persone di 27 nazionalità diverse, di cui quasi 100 minori, insieme ad alcune migliaia di attivisti di vari movimenti, da quelli studenteschi a quelli ecologisti. La crisi migratoria è complessa, intreccia il diritto umano a migrare con la crisi della giustizia globale causata dal capitalismo che costringe a migrare per sopravvivere, dunque richiede soluzioni che garantiscano il diritto a migrare e il diritto a restare. Trovare queste soluzioni non è semplice ma la via con cui trovarle c’è e l’ha indicata sempre Papa Francesco nella “Fratelli tutti”, quando spiega l’importanza che la politica coinvolga i movimenti popolari: «In certe visioni economicistiche chiuse e monocromatiche, sembra che non trovino posto, per esempio, i movimenti popolari. Occorre pensare alla partecipazione sociale, politica ed economica in modalità tali che includano i movimenti popolari e animino le strutture di governo locali, nazionali e internazionali con quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino comune». Ecco dunque la via per la soluzione: i governi e le forze politiche riconoscano come soggetti e protagonisti attivi i movimenti popolari, li coinvolgano. Solo così sarà possibile costruire una vera fraternità”.

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Così don Mattia Ferrari. Da condividere in ogni parola.

Sbugiardati

“I flussi migratori, ormai è evidente, non si fermano con la propaganda – rimarca Tommaso Coluzzi su Fanpage – I dati comunicati da Unhcr e Unicef sono solo l’ennesimo esempio. Una delegazione dell’Agenzia Onu per i rifugiati e del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia ha visitato oggi l’hostpot di Lampedusa, da sempre porto principale di approdo per i migranti che tentano le traversate della speranza dal Nordafrica. Oltre a riconoscere l’impegno delle autorità e gli sforzi della Croce Rossa Italiana nel gestire più efficacemente il centro, sono stati evidenziati anche i numeri dei flussi migratori: sono oltre 84.300 le persone arrivate via mare in Italia da gennaio al 23 luglio. Questo corrisponde a un incremento del 144% rispetto al 2022. Insomma, altro che blocco navale.

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Il 66% dei migranti arrivati in Italia è sbarcato a Lampedusa, a fronte del 48% nello stesso periodo dell’anno precedente. Il flusso sull’isola continua ad aumentare, anche per via delle partenze dalla Tunisia. Inoltre sono ben 8.700 i minori stranieri non accompagnati arrivati in Italia.

Unicef e Unhcr sottolineano l’importanza del cambio di passo positivo avviato a inizio giugno – sempre per quanto riguarda la gestione di Lampedusa – che però sta rendendo necessario un impegno ulteriore per incrementare e velocizzare i trasferimenti verso strutture idonee su tutto il territorio nazionale. È necessario per decongestionare i centri di Calabria e Sicilia e garantire un’accoglienza dignitosa a coloro che fuggono da situazioni di conflitto, persecuzione e povertà estrema.

Durante la visita, i due rappresentati – Chiara Cardoletti per l’Unhcr e Nicola Dell’Arciprete per Unicef – hanno sottolineato la necessità di risposte rapide e mirate per i minori non accompagnati e le altre persone vulnerabili che vengono accolte nell’hotspot, per garantire il loro benessere e la loro sicurezza”.

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Benessere e sicurezza. Parole che non esistono nel vocabolario dei “securisti” che governano l’Italia. E che marchiano l’Europa. Un marchio d’infamia. 

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