Cutro, per non dimenticare e non arrendersi mai

Cutro, per ricordare che nel Mediterraneo si continua a morire. Che il sistema di accoglienza è stato smantellato. 

Cutro, per non dimenticare e non arrendersi mai
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

24 Febbraio 2024 - 19.25


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Cutro per non dimenticare. Per onorare le vittime innocenti di una strage che poteva essere evitata.

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Cutro, per ricordare che nel Mediterraneo si continua a morire. Che il sistema di accoglienza è stato smantellato. 

Una memoria da rinverdire

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“L’Oim (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni), l’Unhcr (l’Agenzia Onu per i Rifugiati) e l’Unicef(Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia), si uniscono nel ricordo dei migranti e rifugiati  e vittime del naufragio avvenuto sulla spiaggia di Steccato di Cutro un anno fa, il 26 febbraio del 2023. I corpi recuperati a seguito del tragico incidente furono 94, mentre è rimasto incerto il numero esatto di dispersi.

Quello di Cutro fu un naufragio che scosse le coscienze e che dimostrò per un’ennesima volta quali siano i rischi che migranti e rifugiati corrono nel tentativo di fuggire dai contesti drammatici in cui si trovano, siano essi conflitti, povertà, emergenze climatiche, violenze e abusi subiti nei paesi di transito.

Nel drammatico incidente persero la vita uomini, donne e decine di minori provenienti principalmente da Afghanistan, Pakistan, Siria, Iran.

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 L’anniversario della tragedia di Cutro avviene proprio nei giorni in cui arrivano conferme di notizie di nuovi naufragi avvenuti al largo della Tunisia, al largo di Zarzis e di Mahdia. Se il 2023 è stato caratterizzato da un aumento del 30% dei morti in tutto il Mediterraneo rispetto all’anno precedente (dagli oltre 2.400 del 2022 agli oltre 3.100 del 2023), le prime settimane del 2024 fanno già registrare il bilancio drammatico di oltre 160 morti.

 “I nostri pensieri oggi sono per le tante vittime di quel naufragio. Le drammatiche testimonianze dei sopravvissuti, lo scoramento dei pescatori che si ritrovarono a prestare i primi soccorsi sulla spiaggia, le toccanti storie di chi perse la vita quel giorno, sono ancora impresse nella nostra memoria”, afferma Laurence Hart, Direttore dell’Ufficio di Coordinamento per il Mediterraneo dell’Oim .La tragedia dell’anno scorso, così come tutte quelle che purtroppo continuano ad avvenire nel Mediterraneo, dimostrano come il salvataggio di vite debba essere la priorità assoluta per tutti gli Stati e al contempo ci ricordano come sia un obbligo comune quello di trovare più percorsi migratori legali e sicuri per le persone in movimento.”

 “Ricordiamo con dolore le vite perdute in quel tragico evento e ci stringiamo a tutte le persone che affrontano il pericolo durante il loro viaggio verso le coste italiane. Un anno dopo, non possiamo ignorare l’innocenza spezzata di quei minori che cercavano sicurezza e speranza sulle nostre coste. È cruciale riconoscere che l’infanzia è stata profondamente colpita da questa tragedia, e quindi ribadiamo la necessità urgente di un approccio umanitario e coordinato a livello europeo nei salvataggi in mare. Oltre al salvataggio, occorre garantire percorsi migratori legali e sicuri per evitare ulteriori tragedie e sofferenze. È altrettanto importante fornire un sostegno completo alle persone sopravvissute, compreso il supporto psicologico, sociale e legale.” dichiara Nicola Dell’Arciprete, Coordinatore risposta in Italia, Ufficio Unicef per l’Europa e l’Asia Centrale.

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 “Il Mediterraneo continua a confermarsi come un mare molto pericoloso. È necessaria una maggiore condivisione delle responsabilità e un approccio coordinato a livello europeo nei salvataggi in mare, per evitare sempre più sofferenza e morte.” “Il salvataggio é solo un aspetto, chiaramente importantissimo, di un quadro complessivo di soluzioni per affrontare in maniera umana ed efficace la gestione dei flussi migratori. Occorre rafforzare sempre più le vie sicure e legali, tra cui i corridoi umanitari e quelli lavorativi, per evitare alle persone in fuga di mettersi in mano a trafficanti senza scrupoli e consentirgli un percorso sicuro”, rimarca Chiara Cardoletti, Rappresentante Unhcr per l’Italia, la Santa Sede e San Marino.

Unhcr, Unicef e Oim ribadiscono la necessità di rafforzare la cooperazione e la condivisione della responsabilità a livello europeo nelle operazioni coordinate di ricerca e soccorso (SAR) e ricordano inoltre che tutte le imbarcazioni hanno l’obbligo legale di prestare soccorso alle imbarcazioni su cui i trafficanti stipano i migranti, che, fatiscenti e sovraccariche, sono da considerarsi tutte inadatte alla navigazione e vanno quindi soccorse non appena avvistate.

Le tre organizzazioni continuano inoltre a sollecitare il rafforzamento di canali sicuri di accesso al territorio e lo sviluppo di politiche a lungo termine in grado di fornire risposte umanitarie concrete, garantire il rispetto dei diritti umani di migranti e rifugiati e allo stesso tempo debellare le attività delle reti criminali dei trafficanti”.

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.I vivi e i morti

Ne scrive, in un toccante reportage per Internazionale, Annalisa Camilli, tra i giornalisti più ferrati sulla realtà del Mediterraneo.

[…]” Hadi Gashemi, 41 anni, ha deciso che non tornerà a Cutro per la commemorazione del naufragio. “Ogni volta che ripenso a quello che è successo sto male, ho paura di ammalarmi”, racconta. “Lavoro molto, cerco di non pensarci, ma è dura, è molto triste”, afferma. È afgano, originario di Herat, e vive ad Amburgo, in Germania, dal 2009, quando anche lui è arrivato in Grecia dalla Turchia a bordo di un’imbarcazione precaria. 

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L’anno scorso il nipote gli aveva scritto un messaggio prima che s’imbarcasse da Smirne, in Turchia. Poi qualche giorno dopo ha visto la notizia del naufragio in tv e si è precipitato a Crotone, al Palamilone, dov’era stata allestita la camera mortuaria per le vittime del naufragio. È toccato a lui riconoscere la salma del nipote, la numero KR55M17, che così è tornata ad avere un nome: Meysam Ghasemi, 15 anni, afgano di Herat. Un mese dopo il naufragio, il 20 marzo 2023, Gashemi è riuscito a portare il corpo di Meysam ad Amburgo e a sotterrarlo nel cimitero cittadino: una lapide di legno chiaro, la foto del ragazzo sorridente in primo piano, la data di nascita e quella di morte, e tutt’intorno un cuscino di rose bianche. 

“Era coraggioso e sognava di raggiungermi in Germania. Per quello abbiamo insistito per portare il suo corpo qui ad Amburgo, anche se questo non ci consola”, racconta Gashemi, che lavora come facchino per un’azienda internazionale di spedizioni. 

Anche Asif Z., 17 anni, è originario dell’Afghanistan, e come Meysam era sulla Summer Love. Con lui c’era la sorella Latifa, 28 anni. Era salito sul ponte della nave al momento dell’impatto con una secca a pochi metri dalla spiaggia per prendere i giubbotti di salvataggio e per questo è riuscito a salvarsi. Gli avevano detto che erano arrivati a destinazione dopo giorni di navigazione, aveva visto le luci della terraferma avvicinarsi. Il colpo l’ha spinto in mare, mentre la sorella è rimasta sottocoperta. Dopo l’impatto, si è ritrovato sulla spiaggia, mezzo nudo, ma vivo. 

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Il tempo di alzarsi e poco più in là, quando è arrivata la luce del mattino, ha riconosciuto il corpo senza vita della sorella. Latifa era una medica ed era scappata dall’Afghanistan con il fratello minore perché nel suo paese, sotto il regime dei taliban, non riusciva più a esercitare la sua professione. Voleva andare in Olanda, dove già viveva una parte della sua famiglia. 

“Quando l’ho vista sulla spiaggia non ho avuto il coraggio di girarla e di guardarla in faccia, l’ho riconosciuta dagli orecchini”, racconta Asif. Il ragazzo ora vive ad Amburgo, in un campo per richiedenti asilo. È molto indeciso se tornare a Crotone per l’anniversario del naufragio. Nell’ultimo anno è stato male: incubi, pensieri intrusivi, ansia, depressione. E non riesce a parlare di quello che gli è successo. 

A prendersi cura di lui nei primi giorni dopo il naufragio è stato un avvocato di Crotone, Domenico Oliverio, presidente dell’associazione Tutori volontari dei minori stranieri non accompagnati della Calabria. Oliverio, che ha una lunga esperienza come tutore volontario, segue il ragazzo fin dall’inizio. “Era molto traumatizzato ed era stato messo in un centro di accoglienza straordinaria (Cas) in provincia di Cosenza, quindi molto lontano. Ho dovuto lottare per farlo trasferire in un appartamento a Crotone”, racconta Oliverio. “L’ho accompagnato a fare il riconoscimento della sorella, è stato straziante”, ricorda. “Poi l’ho portato a cercare i loro oggetti tra quelli che erano stati raccolti in spiaggia e portati al centro di prima accoglienza (Cara) di Isola Capo Rizzuto. C’erano tantissime cose: scarpe, biberon, tutine. Asif ha cercato finché non è riuscito a trovare il portafoglio della sorella con dentro delle fotografie”. 

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Il ragazzo ha riconosciuto in tv una scarpa da ginnastica della sorella, era stata messa sopra a una croce di legno, durante una commemorazione. “Ha fatto di tutto per andarla a riprendere sulla spiaggia di Steccato di Cutro”, racconta Oliverio. La salma di Latifa è stata portata in Pakistan, dove vive la madre. Asif qualche settimana dopo l’arrivo ha invece deciso di riprendere il viaggio, insieme a una famiglia di afgani. “Non mi aveva detto che voleva partire, quando l’ho scoperto ci sono rimasto male, perché ero molto legato a lui e mi sono preoccupato”, racconta Oliverio. Ma poi qualche settimana dopo ha ricevuto un messaggio da parte del ragazzo, che diceva di essere arrivato prima a Milano, poi ad Amburgo. “Ci sentiamo quasi tutti i giorni”. 

Quello che Oliviero non riesce ad accettare è che le condizioni dell’accoglienza dei richiedenti asilo siano peggiorate in Italia, proprio dopo il naufragio di Cutro, soprattutto per i minorenni come Asif. “Nel nostro territorio non abbiamo più neanche un centro per minorenni”, spiega Oliviero. “Dopo l’ultimo decreto, che riguarda proprio i minori, è sempre più frequente che ragazzi molto piccoli siano rinchiusi nel Cara per mesi. Siamo andati a prendere lì giovani di quattordici anni, alcuni erano in quel centro per più di un anno”, racconta. 

Nei centri di prima accoglienza i minorenni dovrebbero stare solo pochi giorni, per poi essere trasferiti in strutture specifiche, dove possano essere seguiti adeguatamente da un punto di vista psicologico e sociale, con corsi di formazione e un’assistenza personalizzata. Ma questo ormai succede raramente: una legge voluta dal governo Meloni prevede che i minori fino a sedici anni possano essere ospitati negli stessi centri degli adulti. “Abbiamo avuto dei momenti quest’anno in cui c’erano più di mille minori nel Cara di Isola Capo Rizzuto, ragazzi anche di 14 anni. Senza poter andare a scuola, senza assistenza psicologica, in una struttura sovraffollata, come in un carcere. Con gli altri tutori volontari siamo riusciti a tirarne fuori alcuni, ma servirebbe costruire nella provincia di Crotone un centro dedicato ai minori, altrimenti il nostro lavoro rischia di essere vanificato: i ragazzi devono essere seguiti”, conclude Oliviero. 

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Un sistema in dismissione

Per gli adulti le cose non vanno meglio. Solo nove sopravvissuti del naufragio sono rimasti a Crotone o nelle città vicine. Sono tutti uomini di origine pachistana e un iraniano, al momento ospiti dei centri d’accoglienza Sai (ex Sprar, il sistema ordinario) della provincia. 

“Queste persone non sono state aiutate nel loro percorso, come ci si aspettava. Hanno fatto richiesta d’asilo e hanno dovuto affrontare una lunga trafila. Solo uno ha ottenuto la protezione internazionale. Gli altri hanno la protezione speciale, che dura solo un anno”, spiega Fabio Riganello della cooperativa Agorà Kroton. “Quello che mi conforta è che alcuni di loro lavorano, come pasticceri, gelatai, piastrellisti”. Tuttavia, nell’ultimo anno “si stanno restringendo sempre di più le possibilità dei richiedenti asilo di entrare in un centro d’accoglienza del sistema Sai”, spiega Riganello. Entrano in questo tipo di centri solo i più vulnerabili, mentre gli altri sono portati nei grandi centri, che sono sovraffollati e offrono meno servizi. 

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“Inoltre, non vengono fatti nuovi bandi, stiamo di fatto lavorando in un regime di proroga, e l’idea che mi sono fatto è che il piano sia quello di svuotare questi centri di piccole dimensioni e di chiuderli”, continua Riganello, che racconta la storica vocazione all’accoglienza della provincia di Crotone. “Abbiamo cominciato ad accogliere gli immigrati negli anni novanta, quando ancora non c’era nemmeno il sistema d’accoglienza nazionale. I primi curdi arrivarono qui via mare, c’era un gruppo che dormiva in piazza, così abbiamo iniziato a strutturare delle forme d’accoglienza. Poi in questi decenni abbiamo investito molto su un’accoglienza umana, fatta di piccoli centri, professionale. Ma ora l’impressione è che si voglia ridimensionare, se non addirittura chiudere questo tipo di sistema”, conclude Riganello. 

Una diagnosi condivisa da Valentina Castelli, psicologa di Intersos, che ha assistito per un mese e mezzo i sopravvissuti del naufragio di Cutro. Accompagnava loro e i familiari nel processo di riconoscimento delle vittime al Palamilone. “Anche se avevo molta esperienza, è stata una vicenda che mi ha segnato molto”, racconta. “Ma ancora di più mi spaventa il fatto che quella partecipazione e quelle reazioni molto emotive non abbiano prodotto cambiamenti. Le persone continuano a morire in mare, anzi il 2023 è stato uno degli anni con più morti nel Mediterraneo, con un aumento del 60 per cento del numero dei naufragi rispetto all’anno precedente”, afferma Castelli. 

Nonostante la psicologa lavorasse nell’ambito dell’accoglienza da dieci anni, al momento del naufragio era senza lavoro ed è intervenuta a titolo volontario, perché diversi progetti erano stati sospesi o chiusi. “Dal 1991 Crotone è al centro delle rotte migratorie e ha sviluppato una rete d’accoglienza. Ma con i diversi decreti e riforme legislative, a partire dai decreti sicurezza del 2018, il sistema è stato stravolto e demolito. Molti stranieri sono stati spinti fuori dai centri, tanti sono finiti per strada o in accampamenti informali. Alla stazione per esempio c’è un insediamento, poi un altro nei pressi di piazza Nettuno. Il centro storico di Crotone ospita oggi sia la popolazione migrante sia i crotonesi più poveri in un mix di marginalità”, racconta Castelli. 

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Per questo nell’ottobre 2018 era stato lanciato un progetto da quasi due milioni di euro, finanziato dalla politica di coesione dell’Unione europea, che metteva in rete diverse associazioni cittadine, tra cui Intersos, Croce rossa e Arci, insieme con l’azienda sanitaria locale (Asp). 

“Ci siamo resi conto che avevamo bisogno di un servizio di base per offrire assistenza sanitaria, ma anche supporto psicologico, laboratori d’inclusione sociale e una mediazione culturale per la popolazione straniera, che in quel momento era stata spinta ai margini della realtà cittadina, così è nato il progetto Aylan, dal nome del bambino curdo morto in un naufragio sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Il progetto prevedeva l’apertura di uno sportello dell’azienda sanitaria locale, una clinica mobile per raggiungere gli stranieri negli insediamenti informali in giro per la città, ma anche formazione per gli operatori dei centri d’accoglienza, un lavoro di cooperazione tra le diverse realtà”, continua Castelli. Il programma ha avuto una battuta d’arresto durante la pandemia, per poi concludersi definitivamente nel dicembre 2021. “Abbiamo avuto molti problemi con l’erogazione dei fondi. Sono arrivati in ritardo e hanno messo a dura prova le realtà più piccole, che non riuscivano ad anticipare i soldi”, continua Castelli. Nonostante la situazione degli sbarchi non sia migliorata il progetto non è stato rinnovato, né sostituito da altri simili, lasciando un vuoto. 

“Il progetto Aylan era nato per offrire un’assistenza medica e psicologica a tutti gli stranieri che sono a Crotone. La città continua a essere un punto d’approdo per molti migranti, molti richiedenti asilo escono dai centri come il Cara per la loro inadeguatezza e finiscono a dormire per strada, altri ottengono i documenti a Crotone e poi tornano per rinnovarli. Fino a luglio c’era una baraccopoli sotto al ponte della stazione ferroviaria, che poi è stata distrutta da un incendio. Il progetto Aylan ci permetteva di monitorare queste situazioni e offrire servizi sociosanitari di bassa soglia a tutti. Al suo posto ora non c’è niente e questo è un problema molto serio, che riguarda non solo i migranti, ma anche la popolazione locale che vive in condizioni di povertà. Quel progetto riusciva a rispondere a entrambi questi gruppi”, conferma Filippo Sestito, presidente dell’Arci di Crotone. 

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Ogni sera alle sette davanti alla chiesa di Santa Rita, vicino al Palamilone, si ritrovano i volontari del Camper della speranza, sono gli unici che continuano a occuparsi dei migranti rimasti fuori dal sistema d’accoglienza. Con il camper fanno il giro dei bar, dei ristoranti e dei supermercati: raccolgono donazioni e cibo avanzato, e poi lo distribuiscono nei diversi accampamenti. 

“Portiamo pane, pizza, cornetti, frutta, yogurt. Dipende da quello che troviamo”, racconta Stefania Pugliese, di giorno impiegata in un call center e di sera volontaria. “Ho cominciato perché avevo fatto un voto, ma poi non ho più smesso, perché mi sento utile”, racconta. Ha coinvolto nell’attività anche il marito Nicodemo, che è uno degli autisti. “Sempre più spesso ci troviamo a distribuire pasti anche ai crotonesi, ma molti si vergognano di venire, così ci chiamano e gli portiamo da mangiare vicino a casa”, racconta Pugliese, una delle 35 volontarie dell’associazione. Sul camper a dare una mano spesso ci sono anche i richiedenti asilo ospitati dai centri d’accoglienza della zona. “Sono giovani, si danno molto da fare, hanno voglia di lavorare”, dice Pugliese, che ricorda il naufragio di un anno fa come “una ferita per la città”. Una ferita che non si rimargina”.

Cutro, per non dimenticare. E per non arrendersi. Mai.

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