“Ci scusiamo con gli ospiti e con i volontari che magari non siamo riusciti ad avvisare in tempo. Speriamo di tornare ad essere operativi già lunedì”.
Gli ospiti sono gli ultimi della città, e la città è Agrigento, dove la crisi idrica è figlia di un malgoverno da scandalo, malgoverno che, di fatto, apre praterie all’illegalità. Qui i diritti sono calpestati, anche quelli primari come l’acqua – appunto – qui a pagare sono i meno abbienti e i poveri. A loro è negato pure di bussare alla “Locanda di Maria”, la mensa dei poveri della Caritas costretta a chiudere nel fine settimana perché senz’acqua.
Colpisce il garbo usato nel cartello, quando si rivolge a chi bussa alla porta della mensa, colpisce il totale disprezzo che regna in chi sarebbe stato chiamato ad amministrare la cosa pubblica in città.
La mensa dei poveri costretta a chiudere è il capitolo più recente di un quotidiano bollettino che calpesta i principi primari della convivenza. E tutto accade a due mesi da quel 2025 nel quale Agrigento sarà chiamata ad onorare il titolo della Capitale della Cultura. Impegno probabilmente assegnato frettolosamente e solo per logiche politiche riconducibili al colore dei governi nazionale, regionale e locale. Non che la Città dei Templi non abbia potuto aspirare a rivestire questo titolo, ma perché chi ad Agrigento comanda (amministrare vuol dire ben altro) non le ha assicurato gli elementi che devono essere a fondamento di ogni progetto.
Il cartello alla mensa della Caritas di Agrigento è arrivato mentre a Roma Papa Francesco pronunciava una frase che ben si adatta alle urgenze sociali, ancor prima che politiche, della città. “Liberiamoci del manto della rassegnazione”, ha detto Francesco. Ecco, rassegnazione, sentimento del quale occorre liberarsi nella Città di Pirandello: “Agrigento, liberati dal manto opprimente della rassegnazione, indignati e partecipa alla costruzione di una comunità diversa, alternativa”. Farlo, non solo è possibile, è anche doveroso. In gioco c’è il futuro: o si costruisce un modello diverso o si muore. Si lascerebbe ai giovani solo una carcassa che puzza di morte e dalla quale diventerebbe vitale allontanarsi. Fuga che è in atto, pericolosa, una desertificazione dolorosa.
Le parole di Francesco mi hanno rinviato col pensiero all’incontro di ieri perché l’appuntamento ha dato un segnale, seppur flebile, di un movimento che tende proprio a scrollarsi dalla schiena questa pesante e suicida coltre di rassegnazione. Nel pieno della crisi idrica questa estate in città si era tenuta una manifestazione di piazza impensabile per partecipazione. E l’incontro di ieri è stato promosso da chi, in questa difficile ed arida stagione della città, ha provato a smuovere le coscienze, raccogliendo racconti e rabbia di chi ha sofferto, e continua a soffrire, la sete. Una condizione incivile che ha responsabilità con nome e cognome, di oggi, di ieri e dell’altro ieri.
Ad Agrigento come nel resto della Sicilia l’acqua c’è, c’è sempre stata e i nomi delle contrade lo ha sempre suggerito. Si pensi che uno dei quartieri più assetati di Agrigento, dove vive un quinto dell’intera popolazione, si chiama “Fontanelle”. Ebbene, a Fontanelle l’acqua è arrivata a mancare per più di un mese, e alcuni cittadini hanno dovuto fare ricorso alle autobotti a pagamento, non una, due o tre volte. Ogni carico di acqua costa più di cento euro.
Al confronto si è sottratto il sindaco, il suo vice, l’intera giunta. Assente anche chi dovrebbe governare questo servizio pubblico e invece gestisce l’acqua solo per potere personale e di parte. Assenti pure tutti i consiglieri comunali, compresi quelli della sparuta e afona opposizione. Una grande fuga, con sommo disprezzo delle regole base di una democrazia.