Per capire chi è Pietro Grasso bisogna tornare indietro di 28 anni, nel momento più importante in assoluto dell’impegno contro la mafia nel nostro Paese. Dobbiamo entrare nell’aula bunker di Palermo fresca di inaugurazione. Il pool antimafia di Falcone e Borsellino aveva mandato a processo circa cinquecento boss, le gabbie del bunker erano piene dei vertici di Cosa Nostra incastrati dal pentimento di Tommaso Buscetta. Lo Stato aveva velocemente costruito la super sicura aula bunker confinante con il carcere dell’Ucciardone, costruirla era stato un compito agevole.
Complicatissimo invece era trovare i giudici che volessero proseguire a dibattimento, in Corte d’Assise, il lavoro di Falcone e Borsellino. Erano i tempi del tritolo che aveva fatto saltare in aria Rocco Chinnici, dei killer che circolavano con mitra e pistole uccidendo magistrati come Ciaccio Montalto e Gaetano Costa o investigatori come Boris Giuliano, Emanuele Basile. Era pericolosissimo essere a Palermo magistrati poco accomodanti nei processi importanti. Si assolveva a piene mani, anche per viltà. E quello era il primo maxi processo. Si giocava una partita dirompente, vitale: la credibilità del super pentito Buscetta e soprattutto la validità del lavoro di Falcone e Borsellino.
Tutti i magistrati che contavano, i papaveri della giustizia penale palermitana, le toghe bravissime ad emettere sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, scappavano innanzi alla prospettiva di far parte di quella Corte d’Assise, come topi innanzi al gatto, come gazzelle innanzi ai leoni. Si cercavano disgraziati irresponsabili per comporre quella Corte d’Assise. Si dichiarò disponibile a presiedere quella corte Alfonso Giordano, uomo di nobile coraggio: ma aveva la libera docenza in diritto civile, brillanti pubblicazioni in materia di testamenti. Aveva svolto la carriera, da decenni, nei Tribunali Civili.
Il giudice a latere doveva quindi essere il vero uomo forte del processo, l’esperto in procedura e diritto penale, il giudice a latere doveva far fronte in udienza alle centinaia di avvocati dei capi mafia, doveva indirizzare quei galantuomini che avevano accettato di essere giudici popolari. Doveva essere più di un eroe il giudice a latere che si sobbarcava il primo, il più grande, il più importante dei maxi processi alla mafia. E questo semplice, sobrio, superuomo che accettò di imbarcarsi in una impresa che si prevedeva fallimentare e invece fu una delle più grandi vittorie dello Stato italiano è Pietro Grasso.
Grasso non è l’erede di Falcone e Borsellino, è molto di più di un erede. Grasso è l’ultimo di quella meravigliosa cucciolata di eroi, è colui che è riuscito a portare avanti sempre con il medesimo senso di dovere e la medesima sobrietà il lavoro intrapreso negli anni ’80 assieme a Falcone e a Borsellino.
Senza Pietro Grasso non ci sarebbero state le condanne del maxi processo e la mafia sarebbe ancora quella che comandava nelle carceri e nei palazzi di giustizia nell’epoca precedente l’impegno di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. In quegli anni un presidente di Corte d’Appello sollecitava Chinnici a riempire di processetti la scrivania di Falcone così “non rompeva più i coglioni all’economia siciliana.” Ho conosciuto Pietro Grasso, andai a casa sua, mi offrì un caffè nel suo salotto. Avevo solo ventotto anni. Mi aveva indirizzato da lui Paolo Borsellino. Borsellino aveva presentato ad Agrigento il primo libro sulla mafia della mia terra, il libro che raccoglieva gli atti del processo alle cosche agrigentine, il processo istruito da Rosario Livatino. Era quello un libro molto poco gradito perché pubblicava anche gli atti riguardanti rapporti scabrosi del più potente dei politici siciliani dell’epoca, il ministro Lillo Mannino. Era opportuno presentare quel libro a Palermo e fu Borsellino a farmi conoscere Pietro Grasso, che con la consueta sobrietà venne a parlare al municipio di Palermo dei rapporti tra mafia e politica evidenziati nelle inchieste giudiziarie.
Ricordando la casa di Grasso vi sono tornato lo scorso 5 gennaio 2013 con un poster bus, ovvero con un camion vela di quelli che trainano i grandi manifesti sei metri per tre. Ho rivolto un pubblico appello a Grasso perché mettesse sulla bilancia tutta la sua autorevolezza per cancellare dalle liste del Partito Democratico impresentabili come il senatore Mirello Crisafulli e qualche altro. In quel poster bus scrissi che un partito non poteva candidare contemporaneamente chi ha dedicato la sua vita a sconfiggere la mafia, come Grasso, e chi ritiene normale incontrare superboss mafiosi per trattare di spartizioni di appalti e di tangenti. Ero certo che i soldi di quel poster bus, circa mille euro, sarebbero stati un grande investimento per la pulizia della politica, per la lotta alla mafia. E così è stato. Con la consueta efficacia e sobrietà Grasso si è fatto sentire da Bersani, eccome si è fatto sentire.. E poi, dopo la sua esclusione, Crisafulli non ha mancato di inviare i suoi pensierini intinti nel veleno contro Pietro Grasso.
Anzi, senza presunzione può dirsi che se il Pd è oggi maggioranza alla Camera, se Bersani ha avuto quel vitale 0,4% in più di Berlusconi, quello 0,4% che ancora ci tiene in Europa, è merito della battaglia vinta grazie a Pietro Grasso e grazie ovviamente a Bersani per togliere dalle liste gli impresentabili, anzi i peggiori impresentabili.
Stimo da sempre Antonio Ingroia, ma non ho avuto dubbi nel ritenere l’impegno, il valore, l’incisività del magistrato Pietro Grasso neanche lontanamente paragonabile a quella di qualsivoglia magistrato vivente. Grasso è stato un carro armato nella lotta contro la mafia. Un carro armato, se vogliamo, con i cingoli oliati e felpati, in grado di muoversi nel modo più sobrio e silenzioso, ma anche nel modo più efficacie. Pure sul terreno del contrasto al legame tra la mafia e la politica. Totò Cuffaro era di gran lunga il siciliano più potente, sembrava una potenza invincibile: le scelte processuali di Grasso nei confronti di Cuffaro furono a suo tempo criticate: «Grasso è un debole, ha paura di andare contro i potenti politici..». Oggi Cuffaro è in carcere ed è il più importante dei politici della storia di Italia incarcerato per mafia. Grasso ha dimostrato anche in questo caso di essere il migliore, non solo nella sobrietà ma anche nella professionalità, nel valore, nella incisività.
Torniamo a quell’aula bunker, a quel maxi processo che si aprì nel febbraio del 1986. Quando tutti compivano comode scelte e si sfilavano via il principale baluardo del lavoro di Falcone e Borsellino fu lui, il quarantenne Pietro Grasso, che espose la sua famiglia, i figli piccoli, la moglie insegnante ad una scelta di vita che non consente pacificazioni con il sistema criminale o comunque ritorni indietro nella tranquilla (e mediocre) normalità. Grasso, per servire lo Stato italiano, per stare in trincea ben oltre un quarto di secolo, ha guadagnato esattamente quello che percepisce un suo collega che si occupa di liti tra coniugi o di sconfinamenti tra vicini.
Ovviamente oggi occorre rendere anche grande merito a Pierluigi Bersani e a quella vitale parte del Partito Democratico che ha compreso quanto sia importante il rinnovamento, la riqualificazione della politica, il compimento di scelte limpide contro quel degrado che ha fatto di Grillo il primo partito. Candidando Pietro Grasso alla presidenza del Senato Pierluigi Bersani dimostra qual è la differenza tra una grande forza democratica che con tutte le contraddizioni è la più grande risorsa di questo Paese e quanto possa essere comunque miope un soggetto politico che non riesce a percepire la differenza tra le due opposte storie di Renato Schifani e di Pietro Grasso. Se per Beppe Grillo e i suoi uomini Schifani e Grasso vanno considerati equivalenti gli italiani avranno ampio modo di capire e di riflette.
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