di Carlo Dore jr
E alla fine, la “guerra civile” annunciata tra squilli di tromba dagli house organ di casa Mediaset si è risolta in una mesta adunanza di attempati aficionados del berlusconismo ante litteram, stoicamente irremovibili nel loro proposito di sfidare il caldo torrido del primo agosto romano per mettere in piazza l’estrema autodafé in onore del Capo ferito a morte dagli ermellini rossi.
Non sono arrivati i cinquecento pullman invocati da Daniela Santanché, non hanno fatto presa i cartelloni grondanti del sudore di Giuliano Ferrara, non ha trovato seguito il rigurgito nostalgico di Gasparri, asceso ad una copia del fatal balcone per arringare una folla immaginaria.
Falchi e colombe sono rimasti confinati all’ombra di un palco forse non autorizzato, mentre le facce lunghe di Cicchitto e Verdini descrivevano bene il clima della kermesse: facce livide di rabbia per una decisione che priva il Cavaliere dello status di incensurato; facce scure di delusione per una sentenza che rischia di far tramontare una volta per sempre la sciagurata stagione delle larghe intese; facce semplicemente stravolte dal bollore dei sampietrini. Faccette nere, intonerebbero in punta di fez gli oplites di un altro (e tristemente noto) Uomo della Provvidenza.
Bondi prova a recuperare il piglio da pretoriano dopo la sonora rampogna ricevuta dal Quirinale, gli inni da campagna elettorale disturbano la quiete dei romani ancora confinati tra le mura dell’Urbe, la guerra civile può cominciare. Berlusconi conquista il palco tenendo per mano la sparuta fidanzatina, mentre il suo sguardo vaga lungo la strada semideserta: l’esercito di Silvio, alla fine, ha dimostrato la stessa capacità di mobilitazione di un plotone di boy scout.
Un sorriso per i fotografi, e parte il copione del video-messaggio tra bandiere e scrivanie immacolate, seguito da un’imbarazzante sensazione di deja vu: la frode fiscale non c’è mai stata; la condanna è la conseguenza di un complotto ordito da toghe rosse e stampa ostile; la Cassazione – fino a ieri, descritta come il “Giudice a Berlino” del mugnaio di Potsdam – si è rivelata la quinta colonna dei congiurati armati di codici e pandette. Tutto già visto, tutto già sentito. Ecco allora il coupe de theatre in grado di destare dal torpore il migliaio di fans accalcati sotto Palazzo Grazioli, il titolo ad effetto per i cronisti a caccia di uno straccio di notizia degno di tale nome: la magistratura non è un potere dello Stato, in quanto sprovvista di legittimazione popolare.
È troppo: mentre il fantasma del barone di Montesquieu minaccia di occupare in pianta stabile il quartiere nobile di Palazzo Grazioli per vendicare l’ennesima lesione arrecata al principio della separazione dei poteri, le tante anime democratiche sparse in giro per l’Italia tirano il classico sospiro di sollievo, vagheggiando la conclusione dell’indigeribile fase della pacificazione ad ogni costo: davvero il centro-sinistra vuole continuare a riconoscere responsabilità di governo al leader di uno schieramento che dimostra di non accettare le regole basilari della convivenza democratica? Davvero il Pd intende procedere ad una riforma della Costituzione di comune accordo con un piccolo egoarca che della Carta ignora persino i principi fondamentali?
Il comizio finisce, tra lacrime di cartone ed applausi di ordinanza: Silvio riguadagna in tutta fretta la via di Arcore, seguito dal peso di una condanna inevitabile e schiacciato dallo spettro della conseguente incandidabilità; gli aficionados abbandonano a capo chino via del Plebiscito: la guerra civile è ufficialmente rinviata a data da destinarsi. Rimane solo spazio per la disperazione di Bondi rampognato dal Quirinale e per le doglianze della Santanché, ancora in attesa dei cinquecento pullman con cui dare l’assalto al palazzo della Cassazione: falchi e colombe dispersi nel caldo del primo agosto, faccette nere smarrite nel silenzio assordante della strada deserta.
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Argomenti: pdl silvio berlusconi