Perché il decreto sul femminicidio non va

Un problema strutturale affrontato con un decreto legge emergenziale a costo zero, che prende di petto la questione penale. Non è la strada giusta. [Luisa Betti]

Perché il decreto sul femminicidio non va
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1 Settembre 2013 - 15.25


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Dopo una prima, e fin troppo facile entusiastica, esaltazione mediatica del decreto legge sul femminicidio varato dal governo Letta in pieno agosto (cosa che ha consentito un passaggio in sordina rispetto a quello che la società civile e l’informazione attenta avrebbe potuto fare e dire), arrivano adesso le prime critiche argomentate verso un impianto che presenta gravi disattenzioni. Prima fra tutti l’ingenuità (ma è davvero ingenuità?) di poter affrontare un problema strutturale come quello della violenza sulle donne e sui minori, attraverso un decreto legge “emergenziale” a costo zero, prendendolo di petto da un punto di vista penale, dopo che per almeno due anni è stato detto e ridetto (tutti i giorni credo) che, essendo un problema strutturale e quindi radicato nella società, il femminicidio è un fenomeno da affrontare a 360 gradi, con un forte impatto dal punto di vista culturale e con una serie di investimenti mirati. Una cosa che la ex ministra Idem aveva capito e che per questo (continuo a dirlo) è stata epurata. La certezza di non poter far finta di nulla, dopo l’ondata di indignazione e il massiccio tam tam dell’informazione, insieme alla ferma intenzione di non sganciare un euro sulla violenza contro le donne, ha portato Letta, Alfano e i loro compagni di avventura, alla strada più facile: un DL che, seppur con alcuni meriti – come per esempio il riconoscimento della violenza assistita dai minori – ha preso dal lavoro delle associazioni, che da sempre si occupano di questo, solo poche briciole.

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E poi, ci vuole una scienza per capire che nei tribunali italiani le leggi non sono pienamente applicate? e se il problema persiste, chi ci dice che anche queste non rimangano sulla carta? forse bisognerebbe andare alla radice invece di insistere con i ritocchi. Mi sembra che i fatti ci abbiano portato spesso e volentieri a dire che qui le leggi ci sono ma che il problema è la loro applicazione. Abbiamo detto e ridetto che troppo spesso le donne non sono credute, e subiscono una vittimizzazione secondaria nei tribunali, vietata espressamente anche dalla Convenzione di Istanbul ratificata dall’Italia pochi mesi fa. Abbiamo sottolineato, noi ma anche la Cedaw e la Special Rapporteur dell’Onu sulla violenza contro le donne, che in Italia non serve fare nuove leggi se poi sopra a tutto vige una cultura intrisa di stereotipi che comanda le teste dentro e fuori la giustizia. Certo, la pena può essere un deterrente e può essere funzionale, ma a che serve se poi rimane inapplicata in un contesto dove comunque le donne valgono meno degli uomini e sono discriminate a prescindere? Abbiamo idea di quanto spesso vengono archiviate le denunce di stalking perché in fondo: che sono 500 sms in una notte, e che vuoi che siano quelle minacce di morte che il tuo ex marito ti fa al telefono? (almeno fin quando non t’ammazza). Senza stare qui ad analizzare punto per punto (ma poi lo faremo), è sui minori che si raggiunge il massimo dell’ipocrisia quando da una parte si parla di violenza assistita (che va benissimo) e poi non si mette mano a quello che succede veramente ai bambini e alle bambine tolti a madri che, con la complicità dei servizi sociali, hanno denunciato violenza su di loro o sui loro figli. E questo non solo perché non si riconosce la violenza in famiglia, dato che un marito violento è comunque sempre un “buon padre”, ma perché arrivano a indicare nella madre (malevola) la responsabilità della situazione denunciata: ma signora, ma lei è esagerata, è lei che spinge suo marito all’esaurimento nervoso! E infine una domanda: vi siete chiesti perché nella stessa Convenzione di Istanbul, che la società civile voleva così fortemente, si insiste sulle tre P nell’ordine di Prevenzione, Protezione e poi Punizione?

Le Commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera dei deputati inizieranno a discutere il 6 settembre il provvedimento, mentre il 10 e l’11 settembre inizieranno le audizioni, tra cui la Corte di Cassazione e l’Anm. Mi auguro che le Commissioni ascoltino anche le associazioni che lavorano “al fronte”, e in maniera particolare la “No More” che ha al suo interno un’importante fetta della società civile che lavora nella teoria e nella pratica sulla violenza contro donne e minori, e che molte parlamentari che adesso sono lì, hanno firmato sottoscrivendola e che quindi non possono ignorare ora. Le richieste sono contenute nel comunicato (n.d.r. lo ritrovate qui: http://giulia.globalist.it/Detail_News_Display?ID=58486&typeb=0&No-More-non-si-ferma-cosi-il-femminicidio) redatto dalla CONVENZIONE CONTRO LA VIOLENZA MASCHILE SULLE DONNE – FEMMINICIDIO ”No More”, con cui mi trovo d’accordo per forza di cose dato che vi ho partecipato direttamente, in quanto parte del comitato promotore e referente di “Giulia”. Lo dico apertamente non per essere “di parte”, ma perché vorrei che fosse chiaro che userò/useremo tutte le forze a disposizione per evitare ogni sorta di strumentalizzazione politica e manipolazione mediatica fatta sulla pelle delle donne e dei bambini, una strumentalizzazione finalizzata a “promuovere” un governo platealmente “insufficiente”, che ancora non ha recepito né le Raccomandazioni Cedaw, né quelle della Special Rapporteur dell’Onu, e soprattutto non ha ancora capito bene cosa ha fatto quando ha ratificato la Convenzione di Istanbul (ma ve la siete letta?). Questo DL sul femminicidio della coppia Letta-Alfano è stato inserito in un pacchetto sicurezza come si fa quando si vuole mettere “una pezza”, inserendo anche “strette peggiorative” dell’esistente che non hanno nulla a che fare con la violenza contro le donne: forse perché si pensa che in fondo il problema non è degno di essere affrontato come cosa a sé, un ragionamento in perfetta sintonia con il fatto che alla fine il premier ha deciso di non rimpiazzare Idem con un’altra ministra (e non una delega) né tanto meno di darci un ministero vero e con portafoglio (figuriamoci).

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