di Antonio Cipriani
Ho aspettato un po’ prima di scrivere della Sardegna – terra che amo – devastata dal ciclone e dalla follia di chi, da decenni, si arricchisce sulla pelle di chi ci vive. E in questo caso, ci muore. Ho aspettato per due motivi: vincere la vocazione forte al vaffanculo (mi scuso per il termine) contro la politica degli affaristi, dei cementificatori, degli arraffoni nascosti dietro una cultura identitaria fasulla come una moneta di un euro e mezzo. Di mistificatori dei saperi antichi e profondi, di leccapiedi dei colonizzatori e nel contempo arroganti sacerdoti della speculazione che avvantaggia i pochi e rende poveri (talvolta servi) gli altri sardi.
Vinta a fatica questa vocazione, passo al secondo motivo. Sul dramma viene costruita dai media una narrazione fatta di dolore, risentimento civile, passerella politica, rimbalzo di responsabilità. Virgolettati sparati, accuse, risposte. Testimonianza e rabbia. Tutto giusto, ho letto cose incredibilmente sagge e interessanti. Altre vergognose, altre ancora penose. Con una tendenza che rende forte questa politica mediatica: lasciar sfogare il risentimento, promettere cambiamenti, stanziare somme per emergenze. Poi chiudere il tutto in un cassetto dei buoni propositi inutili. Ecco, vorrei scrivere oggi, per dire che stavolta no. Che la Sardegna deve essere strappata dalle mani di questi maggiordomi del sistema che oggi la piangono, domani la stuprano.
Partiamo dalla solidarietà (meravigliosa) dei cittadini, delle persone che hanno aperto le loro case, che hanno preparato pasti caldi per chi non aveva da mangiare. Per chi ha messo le mani nel fango per salvare vite. Partiamo dal cuore grande dei volontari, dal pensiero fecondo di tante persone, dalla volontà di cambiamento necessaria. E non giriamo pagina. Lasciamo che tutto questo – rabbia, dolore, azione civile, partecipazione – non finiscano in un cassetto dimenticato del potere. Impediamo alla politica di rigenerarsi sulle tragedie con finte promesse, utili a prendere tempo, a far sì che la memoria svanisca e l’indignazione lasci spazio alla rassegnazione. E che in tv si riproponga il solito inutile balletto della rappresentazione mediatica falsata del salotto televisivo. Delle chiacchiere sul niente, a coprire le efferatezze reali.
Non solo non dimenticare. Agire per rovesciare il sistema. E che la tragedia in Sardegna sia monito vero, non quelli del Quirinale. Un monito civile che preveda una rivoluzione. Non è una chiamata alle armi, è una chiamata all’azione, alla partecipazione, alla costruzione di un modo diverso, di logiche che impediscano ai ladri di futuro di portarsi via anche le ultime briciole di speranza.
Basta con i cittadini seduti sul divano davanti alla tv, a esprimere la democrazia del telecomando. Basta con gli ululanti alle spalle dell’inviato col microfono, mentre i politici e i giornalisti del clan (sempre gli stessi gli uni e gli altri) seduti comodi rappresentano anche fisicamente la differenza di casta. Orsù, è il tempo: i banditi, i ladroni, i mistificatori, i danni per tutti noi non sono brutti e sporchi, vestono il doppiopetto. Dimenticarlo è ridicolo. Portare loro rispetto per questioni di classe e ceto, è folle. La politica non ha più i requisiti morali per parlare di fatalità. Non ha i requisiti morali per salvare il Paese. E spetta ai cittadini rovesciare il sistema. Impedire ai rappresentanti di arricchirsi e di farsi pagare le campagne elettorali svendendo il bene comune. Spetta a tutti noi battersi, non subire. Battersi sul luogo di lavoro, nel quartiere, nel paese, contro chi ci umilia con eleganza e denaro frusciante.
Scrive Francesco Giorgioni, un vero grande giornalista sardo, che il cemento prevaricatore cancella luoghi, prudenze e saperi, soffocandoli sotto un cumulo di banconote. Questa è stata la Sardegna degli ultimi decenni. Aggiungo io: questa è la Sardegna da rovesciare. Questa è l’Italia da cambiare.
“Il decreto del Fare del presidente del consiglio Letta prevede (articolo 37) le zone a burocrazia zero, zone in cui con la scusa della crisi economica si può aprire una fabbrica o un albergo in spregio anche delle norme paesaggistiche e di tutela idrogeologica. Anche sugli alvei fluviali, come nella Sardegna dell’abusivismo. Il Ministro Lupi e il suo vice De Luca continuano a lesinare i soldi alle opere di messa in sicurezza del territorio. Secondo costoro il futuro dell’Italia sta nelle grandi opere per le quali i soldi si trovano sempre. 11 miliardi a Mose e Metro C di Roma. 20 miliardi per la Tav della val di Susa. Ne basterebbero la metà per rimettere in ordine il territorio e invece nulla”, scrive l’urbanista Paolo Berdini.
Partiamo da qui. Da quello che si inventano per danneggiarci. E costruiamo uno, cento, mille movimenti. Che si battano per il diritto di tutti, contro la ricchezza di pochi. E costruiamo una rete di informazioni civili, fuori dal sistema di pochi padroni (con interessi per nulla legati all’editoria) che con i media rappresentano il braccio armato comunicativo di questo mondo elitario, di pochi ricchissimi e tanti maggiordomi che operano nella politica e nell’informazione, per determinare scelte e posizioni.
Un esempio nel quartiere dove vivo e dove civilmente mi impegno. C’era un parco, c’erano giardini verdi, la politica ha permesso la costruzione di grattacieli inutili per favorire speculatori di turno. Ieri Ligresti, potentissimo e protetto, oggi la multinazionale Hines. Al posto di un bene comune come un parco, con le panchine per gli anziani e l’erba vera per i bimbi, cemento. Ecco, qui il movimento è stato forte e nobile. E lo è ancora. Anche senza voce, perché i media hanno appoggiato acriticamente il Ligresti di turno oppure Hines. La rivoluzione nasce da quest’ultimo punto: sottrarre a pochi proprietari, amici di salotti buoni, l’informazione su quello che il capitale fa davvero. La battaglia è appena cominciata. (Per saperne di più: [LinkNewsB_46213].
E mi viene in mente una frase sarda che in molti mi hanno ripetuto in questi giorni: s’abba tenet memoria. L’acqua ha una sua memoria. Per dire che alla fine vince. Ecco, la politica è come l’acqua compressa dalla cementificazione, verrà fuori altrove. Siamo qui per questo.