“Facile parlare, prendeteli in casa”. Nel repertorio di luoghi comuni che va emergendo attorno al diritto d’asilo, il più gettonato è probabilmente quello che vorrebbe mettere i promotori dell’accoglienza di fronte alla loro stessa ipocrisia, invitandoli a farsi carico dei profughi in prima persona. Ma tra una rissa dialettica e l’altra, capita di incontrare qualcuno che di migranti, tra le mura domestiche, ne ha ospitato più d’uno. È il caso di Ilda Curti, assessore all’integrazione della città di Torino con una lunga esperienza in fatto di diritti umani; che in una lettera aperta pubblicata su “Gli stati generali” ha raccontato una storia di solidarietà che va avanti da oltre vent’anni. “L’ho già fatto e continuerò a farlo” ha scritto la Curti. “L’ho fatto con i profughi della guerra balcanica. L’ho fatto per anni con 5 ragazzini randagi di Khouribga che ho tirato grandi, fatto studiare e sistemato, strappandoli allo spaccio e allo sfruttamento. Con una coppia di clandestini romeni, lei incinta di 8 mesi, che dormivano su una panchina in novembre dopo essere stati cacciati dalla famiglia italiana dove lavoravano in nero, all’annuncio della gravidanza”.
Una confessione che l’assessore racconta di aver ponderato a lungo, “perché il rischio – spiega – era che il tutto venisse ridotto ad una vanteria, quando la realtà dice il contrario. Il nostro paese è pieno di uomini e donne che si danno da fare in silenzio. È un mondo che parla con i gesti, fuori dal clamore dei proclami su Twitter”. La vicenda che ha portato Ilda Curti a trasformare la sua casa in un improvvisato rifugio per profughi inizia nel 1992, ai tempi della guerra serbo-croata, quando il giornalista e scrittore Luca Rastello, scomparso lo scorso luglio, costituì il primo comitato d’accoglienza di Torino. “Decidemmo di portare quell’esperienza a Caluso – ricorda Curti – il mio paesino di settemila anime nel Canavesano. Fu un’iniziativa dal basso, del tutto spontanea: il sindaco ci mise a disposizione una scuola abbandonata, e gli artigiani e gli operai del paese la ristrutturarono per adibirla a dormitorio. Ma in molti presero ad accogliere i profughi nelle loro abitazioni, e tra loro c’eravamo anch’io e i miei genitori: fu una forma di accoglienza diffusa, come quella che alcuni comuni stanno sperimentando in questi anni con l’aiuto dei cittadini”.
Curti, che nel ’92 aveva 28 anni e abitava in un monolocale, non ha più smesso di ospitare migranti e rifugiati. “L’ho fatto perché non ero sola – ha scritto nella sua lettera – e con me c’erano i miei genitori, la mia famiglia, gli amici che mi hanno aiutato: la mia tribù solidale e buonista. Ampia, larga, piena di gente di tutti i colori, classi sociali e portafogli”. Una storia che racconta di una Torino “diversa da quella che vorrebbero gli imprenditori del conflitto sociale, che nelle nostre periferie cercano di fomentare una guerra tra poveri. Quella del ‘prima gli italiani’ è in realtà una forma di bassa retorica, perché se si è solidali lo si è con tutti. È il partito dell’odio, semmai, a non esserlo con nessuno: il tema della povertà, in questo senso, sta diventando strumentale nel nostro paese. Ai feroci, a chi ci critica per aver marciato scalzi per i migranti, accusandoci di dimenticare i ‘nostri’ poveri, mi sento di rispondere: fatelo voi. Marciate per loro e vi seguiremo. Passate ai fatti e vi prenderemo sul serio”. (ams)