L’analisi del ballottaggio appena concluso nelle 5 città maggiori dove si è votato (Roma, Milano, Napoli, Torino, Bologna) mostra alcuni aspetti che vale la pena considerare.
Affluenza. Anzitutto, il calo dell’affluenza, che nelle 5 città ha fatto si che non andassero a votare poco più di 340 mila persone, circa il 12% dei votanti al primo turno, è fisiologico, e non è indice di una disaffezione ma solo un normale astenersi quando manca il proprio candidato. In altre parole, il 12% degli elettori in queste città ha preferito, non potendo dare un voto “per”, evitare di dare un voto “contro”. L’analisi è forse eccessivamente rosea, ma tutto sommato si può interpretare il dato in maniera positiva.
È da notare, oltretutto, che, tranne che in un caso (Lettieri a Napoli), tutti i candidati siano riusciti a prendere più voti di quelli del primo turno, nonostante il calo dell’affluenza. Si va dai soli 9.000 voti scarsi in più di Fassino a Torino all’exploit di Virginia raggi a Roma, con quasi 310 mila voti in più.
Le città-caso. E veniamo ad un’analisi più approfondita del dato: in due casi, Roma e Torino, il ballottaggio era tra il centrosinistra ed il M5S: in entrambi i casi hanno vinto i pentastellati, a Torino addirittura ribaltando il risultato del primo turno, unico caso dei 5 presi in considerazione. Le candidate del M5S prendono il 70% dei voti in più rispetto al primo turno. Un risultato che si spiega solamente con il massiccio apporto di elettori di destra (Meloni e Morano non possono essere definiti di centrodestra, credo siano loro i primi a rifiutarne – giustamente – la definizione) verso la nuova formazione governata da Grillo e Casaleggio jr.
Questo non vuol dire necessariamente che il M5S sia di destra (e la giunta Raggi secondo me lo dimostrerà), ma che venga percepito come tale, credo non sia smentibile: a Roma i voti in più per Giachetti sono quasi corrispondenti a chi aveva votato Fassina al primo turno, mentre i 310 mila voti in più per la Raggi provengono da elettori della Meloni e, in misura minore probabilmente, visto il suo invito a disertare le urne, da quelli di Marchini.
Ancora più clamoroso è, a nostro modo di vedere, il caso di Torino. Perché se la gestione al limite del grottesco del caso Marino ha fatto sì che nella capitale il PD fosse destinato (meritatamente) alla sconfitta, nel caso di Torino abbiamo un sindaco uscente che non sarà una stella politica di prima grandezza, ma che ha fatto il suo lavoro in silenzio e senza disturbare nessuno, soprattutto gestendo una città nel periodo più difficile dell’allontanamento di mamma FIAT. I soli 9 mila voti in più presi (meno di quelli della sinistra di Airaudo, che si fermò a 14 mila al primo turno) sono indice non solo di un massiccio afflusso di voti di destra verso la Appendino, ma anche – e soprattutto – dell’aver caricato tali elezioni di una valenza politica nazionale. Colpa di Renzi, certo (è lui il primo a concentrare sulla sua persona quasi tutto l’”agonismo” politico) ma non solo: secondo noi è anche l’unica maniera che un elettorato di centrodestra sempre più allo sbando ha per affermare la propria esistenza: tali elezioni dimostrano infatti che la destra liberale e centrista è scomparsa, in Italia. Chi diceva che aveva la maggioranza solo in chiave anticomunista non aveva, visti tali risultati, tutti i torti.
Senza M5s. Analizziamo invece le tre altre realtà dove il M5S non era presente: qui abbiamo avuto sempre il centrodestra al ballottaggio, che è stato sconfitto in tutti e tre i casi. A Napoli – dove il PD non è arrivato neanche al ballottaggio e dove c’è stata la diminuzione più forte di affluenza tra primo e secondo turno (-31%) – il voto si è mantenuto stabile: facendo la somma dei voti di De Magistris e Lettieri tra primo e secondo turno, possiamo notare che solo 9.000 elettori in più, circa, hanno espresso la loro preferenza. Questo vuol dire che gli elettori di Valente (PD) e Brambilla (M5S), 124.000 voti, praticamente non sono andati a votare. Il risultato finale non è quindi che una riconferma di ciò che era già stato espresso al primo turno. Diverso il caso di Milano e Bologna, dove il ballottaggio era il “classico” (e destinato a scomparire sempre di più) centrodestra-centrosinistra.
Se a Milano il voto del M5S si può dire sia stato equamente distribuito tra i due candidati (a dimostrazione ulteriore che la differenza politica reale tra i due candidati meneghini era molto piccola), a Bologna la Candidata del centrodestra prende quasi 31.000 voti in più (e Bugani, del M5S, aveva preso 29.000 voti al primo turno). Ciò non gli è servito a superare Merola, ma è indicativo, quindi, che gli elettori del M5S si siano spostati sul candidato di Centrodestra.
Possiamo quindi dire che non solo il M5S è percepito come di destra dall’elettorato, ma anche che gli elettori M5S, quando hanno votato, hanno espresso la loro preferenza per la destra (Milano non conta, ripetiamo: la differenza tra i due manager non era tale da poter definirli di “destra” o “sinistra”).
Destra e sinistra? L’obiezione che si farà a tale ragionamento è prevedibile: in Italia le parole “destra” e “sinistra” dal punto di vista politico sono ormai vetuste e non rappresentano più gli schieramenti in campo. A nostro modo di vedere nulla di più falso: l’organizzazione del M5S (la “governance”, diremmo, prendendo in prestito l’inglese) è quanto di più vicino al regime, tecnicamente parlando, ci sia: dalla scelta dei candidati effettuata solo da un’elite (e non facciamoci fuorviare dalla “rete”: se votano in poche centinaia, poco importa come lo facciano) ed imposta all’elettorato al “vincolo di mandato” che di base annulla l’autonomia degli eletti (si parla addirittura di penale in caso di abbandono del gruppo). Il potere legislativo in questo caso scompare proprio, rimanendo assoggettato ad un esecutivo che oltretutto viene percepito come diretto esternamente (il Direttorio con Di Maio e Di Battista dal passato sicuramente di destra, Grillo e Casaleggio jr.). Tale struttura è sovversiva della Costituzione, sia essa quella magnifica attualmente in vigore, sia essa quella che uscirà fuori dalla riforma di Renzi, e che, personalmente, ci convince molto di meno.
Bisogna quindi augurarsi non tanto una buona prova del M5S nell’amministrare le due grandi città in cui hanno vinto (e per Roma siamo veramente all’ultima spiaggia), quanto, forti poi dei loro successi, un’autonomia politica delle due neosindache che porti alla fine il Movimento ad avere una sua identità politica chiara, senza essere visto come “antisinistra” e basta. Ci crediamo poco, visto il caso Pizzarotti, ma ce lo auguriamo lo stesso.
L’ottimismo della volontà deve far premio sul pessimismo della ragione, per dirla con Gramsci, che nel descrivere il fascismo aveva, senza rendersene conto, fatto un ottimo ritratto del M5S attuale. Ecco il brano, tratto da “L’Ordine Nuovo” dell’aprile 1921:
“Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano.”
E la sinistra? È inesistente a livello rappresentativo, ormai, e la generazione dei Bersani, dei D’Alema, dei Veltroni, dovrebbe interrogarsi profondamente sui motivi che hanno consegnato un partito come il PD, erede di storie grandiose e tragiche, nelle mani di un quarantenne toscano che lo ha profondamente snaturato (e non solo come politica: anche come organizzazione). Al tempo stesso, i Civati ed i Fassina dovrebbero cercare di capire come mai la loro politica rimanga residuale a livello di voti. C’è bisogno di sinistra, in Italia, non solo come popolazione, ma anche come rappresentanza politica. Attualmente non c’è.
Latina. Fa quasi tenerezza vedere che un sindaco di sinistra (anche se di una sinistra molto edulcorata) sia stato eletto a Latina, città che è sempre stata un feudo della destra “vera”. Tra i motivi che hanno portato Damiano Coletta ad essere il primo sindaco non di destra eletto a Latina c’è anche la pesante divisione che nel capoluogo pontino ha il centrodestra, e probabilmente molti hanno votato nella logica del “tanto peggio, tanto meglio”. Ma una campagna elettorale fatta prendendo pezzi sani della società civile, andando in città e nei borghi a parlare direttamente con la popolazione, mostrando proposte che non sono utopie o vaghe esternazioni morali sullo stile dell’”onestà andrà di moda” (cosa che politicamente non vuol dir nulla, l’onestà è una caratteristica del singolo, non della società) ha alla fine avuto successo: prima eliminando il PD al primo turno, e poi vincendo con una percentuale enorme (75 a 25) al ballottaggio. Un’idea politica, ed un programma concreto, alla fine vincono. Che la sinistra debba imparare a vincere a Latina ha del paradossale, ma ormai di paradossale c’è parecchio, nel pateracchio politico italiano.
NB: i dati delle votazioni sono presi dal sito repubblica.it