di Antonio Salvati
Sergio Mattarella ha chiesto il «massimo impegno» per affrontare la «difficile situazione» delle carceri. Il sovraffollamento, avverte, non assicura la dignità e danneggia sia i reclusi che gli addetti. Il presidente della Repubblica interviene sulla questione carceraria rispondendo – con una lettera al Gazzettino – rispondendo all’appello che hanno rivolto a lui e al Papa i detenuti di Venezia, Padova e Vicenza. I detenuti non hanno solo lamentato le restrizioni imposte per l’epidemia sui colloqui con i familiari, ma anche annunciato una colletta a favore degli ospedali veneti.
Da anni le condizioni di detenzione nelle carceri italiane sono caratterizzate, seppur considerando le differenze territoriali, da una situazione di grave sovraffollamento e da preoccupanti carenze igienico-sanitarie. È una crisi che proviene da lontano. Le cause sono diverse e tra queste spicca «una obsoleta ed insostenibile visione carcerocentrica», che spesso preclude l’attuazione di sanzioni diverse dalla pena detentiva, malgrado i numerosi richiami del CPT (il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti) del Consiglio d’Europa.
Il sovraffollamento persiste, nonostante le condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo ed i provvedimenti di deflazione carceraria fin qui adottati, il sovraffollamento permane. Il Ministero della giustizia ci informa che al 29 febbraio scorso i detenuti erano 61.230, e un comunicato del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute indica che al 20 marzo i detenuti sono scesi a 59.132, a fronte di una capienza regolamentare pari a 50.931 posti, con un’eccedenza, dunque, ancora prossima al 20%. In alcuni istituti si arriva ad un’eccedenza vicina al 90%. Al sovraffollamento – denuncia l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale – contribuisce la presenza di detenuti in custodia cautelare – misura che dovrebbe costituire l’extrema ratio, trattandosi di persone che, in base all’art. 27 co. 2 della nostra Costituzione, devono presumersi non colpevoli fino alla condanna definitiva: essi, al 29 febbraio scorso, rappresentavano poco più del 30% della popolazione penitenziaria.
L’emergenza coronavirus rischia di innescare quella che il Ministro degli interni ha definito una “bomba epidemiologica”, con il serio rischio di mettere gravemente a repentaglio la salute non solo dei detenuti, ma dello stesso personale penitenziario – già messo a dura prova anche a causa delle carenze di organico – e della collettività.
Le carenze dei servizi igienico-sanitari trasformano il carcere in un ambiente patogeno. L’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale giudica insufficienti i provvedimenti recentemente adottati dal Governo. Il decreto legge 8 marzo 2020, n. 11 dispone che i colloqui con i detenuti avvengano solo in via telefonica o ‘da remoto’ e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020. Tale provvedimento – sottolineano i giuristi penali – si limita dunque a “chiudere” il carcere, «senza poterlo tuttavia rendere ‘impermeabile’, dal momento che ogni giorno vi transitano tantissime persone, dal personale civile alle forze dell’ordine». Con il d.l. 17 marzo 2020, n. 18, invece, si dispone, che salvo eccezioni per alcune categorie di reati o di condannati, ai sensi della legge n. 199/2010 e fino al 30 giugno 2020 la pena detentiva non superiore a 18 mesi, anche se parte residua di maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso il domicilio.
Il recente d.l. n.18/2020, seppur va nella giusta direzione, non risulta idoneo a realizzare una significativa riduzione della popolazione carceraria, se si considera che al 15 febbraio 2020 le persone in semilibertà erano 1039.
Non è questo il tempo delle recriminazioni, sottolinea giustamente il professor Glauco Giostra in un articolo apparso recentemente sulle pagine di Avvenire. Servono immediate contromisure per arginare il contagio: distanze, igiene personale, sanificazione dell’ambiente per non trasformare il carcere in una sorta di stabulario. Non si dica, come pure si dice (spesso per puro sciacallaggio politico), che in tal modo si premierebbero le violenze delle scorse settimane. I provvedimenti sono da prendere per necessità, non certo perché ci sono state le violenze, da condannare senza ambiguità.
Non vi è un’unica soluzione, come pure in questo tempo di eccesso di semplificazioni tanti sarebbero portati a suggerire. Prima che la situazione diventi ingovernabile o addirittura esplosiva si potrebbe innanzitutto intervenire sul flusso in entrata – propone giustamente Giostra – differendo (ad esempio, di sei mesi) l’emissione dell’ordine di esecuzione delle condanne non molto gravi; «quanto meno di quelle sino a quattro anni, rispetto alle quali, di norma, già ora i condannati hanno diritto di attendere in libertà l’esito della loro richiesta di fruire di una misura alternativa al carcere. Si alleggerirebbe nell’immediato il carico della magistratura di sorveglianza e si eviterebbe il rischio che i cosiddetti ‘nuovi giunti’ introducano il contagio negli istituti».
Per agevolare il flusso in uscita, invece, vi sono alcuni rimedi, in mancanza di un indulto, per il quale non ci sono né i tempi, né i presupposti politici. Una dimissione selettiva dei condannati si può ottenere con l’ampliamento della possibilità di accesso alle misure alternative al carcere, affidando alla magistratura di sorveglianza l’accertamento della sussistenza dei presupposti.
Per ovviare all’intasamento del lavoro della magistratura di sorveglianza – che deve valutare i detenuti meritevoli di un credibile percorso rieducativo con conseguente dilatazione dei tempi decisionali – si potrebbe far riferimento alle valutazioni che la magistratura di sorveglianza ha già espresso nel periodo che ha preceduto l’attuale tsunami socio-sanitario. Si potrebbe – spiega Giostra – «prevedere una sostanziosa, ulteriore riduzione di pena per chi nell’ultimo periodo (due anni? tre anni?) ne è già stato riconosciuto meritevole di liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 della Legge sull’ordinamento penitenziario. Si potrebbe anche immaginare di consentire a coloro che versano in tale condizione e che sono relativamente prossimi alla dimissione di ‘monetizzare’ immediatamente, ad esempio, i tre mesi di riduzione meritati nell’ultimo anno, godendo subito di questa sorta di parentesi di libertà, anziché di una anticipazione del fine pena. Si potrebbe consentire ai semiliberi (e agli ammessi al lavoro all’esterno), che da congruo tempo non hanno mai dato problemi nel loro andirivieni penitenziario, di non rientrare in carcere la sera, ma di trascorrere la notte, con obbligo penalmente sanzionato, nel proprio domicilio o in una struttura adeguata».
Bisogna evidentemente muoversi subito, con la chiara consapevolezza che ancora una volta i provvedimenti che fanno bene alla popolazione penitenziaria fanno bene alla società tutta. A cominciare dalle donne e dagli uomini della polizia penitenziaria che vive a stretto contatto con la realtà carceraria, svolgendo le loro mansioni in condizioni difficilissime per il degrado e l’affollamento dei nostri penitenziari.
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