di Vincenzo Sorrentino
Siamo tutti stanchi e preoccupati. Ci troviamo in una situazione che avevamo relegato nell’immaginario cinematografico e che non pensavamo certo ci sarebbe mai capitato di vivere. Siamo concentrati su un’emergenza sanitaria e sociale che non ha precedenti nel secondo dopoguerra. Nel bel mezzo di questa crisi, il 7 aprile, il governo ha emesso un decreto che chiude i porti italiani alle navi battenti bandiera straniera che abbiano soccorso migranti al di fuori dell’area SAR italiana. I porti italiani sono dichiarati non sicuri a causa dell’emergenza Covid-19.
Certo, si dirà, con tutti i problemi che abbiamo, non possiamo preoccuparci anche di questo. E, infatti, si è parlato molto poco del provvedimento del governo. Eppure, esso merita qualche riflessione, proprio in relazione a quanto sta accadendo.
Nel testo leggiamo che per i casi suddetti, in virtù dell’emergenza sanitaria, «i porti italiani non assicurano i necessari requisiti di sicurezza per la classificazione e definizione di Place of Safety (“luogo sicuro”)».
Ci stiamo dunque preoccupando della salute dei migranti che potrebbero arrivare sulle nostre coste? Risulterebbe strana una sollecitudine del genere, nei confronti di persone che fuggono da paesi in cui le sofferenze e i rischi sono ben altri rispetto a quelli connessi al coronavirus.
In realtà il decreto non nasconde il reale intento che lo muove. Leggiamo: «Tenuto conto che, in considerazione della situazione di emergenza connessa alla diffusione del coronavirus e dell’attuale situazione di criticità dei servizi Sanitari regionali e all’impegno straordinario svolto dai medici e da tutto il personale sanitario per l’assistenza ai pazienti Covid-19, non risulta allo stato possibile assicurare sul territorio italiano la disponibilità di tali luoghi sicuri, senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza dedicate al contenimento della diffusione del contagio e di assistenza e cura ai pazienti Covid-19».
Poco dopo si fa riferimento anche al «consistente impegno delle forze di polizia nel controllo del territorio», al fine di garantire il rispetto delle disposizioni del governo.
Dichiariamo ogni giorno che ce la faremo, che siamo un grande paese, e poi diciamo di non poter gestire l’arrivo di qualche centinaio di migranti con possibili contagiati; uomini, donne e bambini provenienti da paesi come la Libia, in cui subiscono violenze di ogni genere. Non si tratta di negare o sottovalutare le difficoltà legate alla situazione eccezionale nella quale ci troviamo. Occorre però evitare ogni strumentalizzazione e non dimenticare – anche in momenti difficili come questo – che, come recita l’articolo 2 della nostra Costituzione, «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo».
Tra l’altro, va considerato anche un altro aspetto, ossia che il provvedimento probabilmente non impedirà lo sbarco di piccole imbarcazioni, che avverrà al di fuori di ogni controllo e che dunque sarà potenzialmente più pericoloso sotto il profilo sanitario.
Solidarietà è la parola più evocata, e forse abusata, di questi giorni. Il decreto manda un messaggio chiaro e preoccupante: la solidarietà di cui stiamo parlando deve valere solo tra di noi e nei nostri confronti.
Da più parti si evidenzia, con un’enfasi che non di rado rasenta la retorica, che nessuno si salva da solo, che l’isolamento ci sta facendo comprendere quanto gli altri siano importanti per ciascuno di noi. La nostra salvezza dipende anche dal comportamento degli altri su cui dobbiamo fare affidamento. Ma non solo. Gli altri ci mancano. Quello che fino a ieri ci appariva ovvio, si mostra con una bellezza e un valore insoliti: ad esempio, andare a mangiare una pizza con altre persone, fare con loro una passeggiata, una gita. Adesso che tutte queste cose ci sono bruscamente negate. Come possiamo, allora, dimenticare le tante persone al di fuori dei nostri confini alle quali queste cose, tipiche di una vita “normale”, sono sistematicamente negate da anni?
Il decreto porta a interpretare la solidarietà di cui tanto ci piace parlare come mera solidarietà nazionale, interna al nostro gruppo di appartenenza. Il riferimento al “prima gli italiani” è tristemente chiaro: non possiamo consentire lo sbarco, «senza compromettere la funzionalità delle strutture nazionali sanitarie, logistiche e di sicurezza».
Pur potendolo fare, abbiamo deciso di non aiutare, proprio nel momento in cui chiediamo aiuto ad altri. C’è chi in questa crisi vede la premessa di una crescita civile e umana. Questo decreto purtroppo è un segnale, piccolo ma significativo, del pericolo di un’involuzione, del rischio che la mutazione che potrebbe derivare da quello stiamo vivendo ci renderà (ancora) più diffidenti e chiusi.
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