C’era una volta l’Emilia-Romagna rossa. La regione dove il Pci negli anni Sessanta e Settanta prendeva il 60% dei voti e un elettore su sette aveva in tasca la tessera del partito (cinquecentomila iscritti su tre milioni e mezzo di cittadini maggiorenni). Dove la politica si faceva per passione, nelle sezioni e nelle Case del popolo, tra la gente col porta a porta, con la diffusione casa per casa de l’Unità, che qui vendeva quasi la metà delle copie nazionali, e nelle feste intitolate al quotidiano fondato da Gramsci (allora propriamente, non come oggi, con i Dem che hanno mantenuto il marchio dopo aver ucciso la testata), con quella nazionale che si alternava anno dopo anno tra Reggio, Modena e Bologna attirando da tutta Italia centinaia di migliaia di militanti e simpatizzanti per il tradizionale comizio di chiusura del segretario (ora confinato sotto un tendone da cinquecento posti).
Poi è arrivata l’Emilia-Romagna del Pd, dei circoli che dovevano sostituire le sezioni ma sono diventati una entità invisibile, dei segretari di circolo che non li conosce nessuno, della politica fatta solo sui social e del partito leggero (liquido? gassoso?) senza più radicamento e organizzazione territoriale, con gli iscritti subito precipitati di nove decimi (quaranta-cinquantamila all’inizio), la”rottura sentimentale” tra sinistra tradizionale e partito, un distacco crescente tra elettori e politica (37% di votanti alle regionali del 2014, 50% alle ultime amministrative). Fino ad arrivare ai dati resi noti oggi dell’ultimo tesseramento: ventiseimila iscritti in tutta la regione, otto-novemila a Bologna.
Più che un partito ormai il Pd è un fenomeno mediatico, un’opinione e tanto établissement. A molti della generazione e della sinistra che fu, fa tristezza e molta nostalgia.