Finalmente il rafforzamento della presunzione d'innocenza. Per alcuni pm e giornalisti è un ostacolo, per me è civiltà

Nella sostanza, la norma introduce il divieto di rappresentare come colpevole la persona sottoposta ad indagini e accentra nelle mani del Procuratore l’emissione di comunicati stampa, limitando le conferenze stampa ai soli casi in cui sia necessaria.

Finalmente il rafforzamento della presunzione d'innocenza. Per alcuni pm e giornalisti è un ostacolo, per me è civiltà
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Aldo Luchi Modifica articolo

27 Dicembre 2021 - 16.01


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Da qualche giorno assistiamo, sulle principali testate giornalistiche, alle prese di posizione di illustri magistrati e delle associazioni della stampa che lamentano gli effetti dell’entrata in vigore, il 14 dicembre scorso, del DLgs n° 188/2021 sul rafforzamento della presunzione di innocenza, da alcuni addirittura definita “Legge bavaglio”, e paventano strumentalmente scenari incontrollabili quali il monopolio sulla divulgazione di notizie selezionate o il ricorso a canali illegali.

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Per serietà, sembra innanzi tutto opportuno chiarire che l’iniziativa di questa normativa non è del Governo e della Ministra Cartabia, che, quindi, non ha alcuna ragione di essere rappresentata come “nemica” della magistratura e della stampa.

In realtà, si è unicamente posto rimedio ad una intollerabile inerzia dello Stato italiano, che si protraeva da oltre 5 anni, nel recepimento della DIrettiva UE 2016/343 adottata dal Parlamento e dal Consiglio UE il 9 marzo 2016.

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Le finalità della direttiva sono rappresentate nel 9° e nel 10° considerando, laddove è compiutamente spiegato che la finalità è quella di “rafforzare il diritto a un equo processo nei procedimenti penali, stabilendo norme minime comuni relative ad alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo.”, affinché si rafforzi “la fiducia degli Stati membri nei reciproci sistemi di giustizia penale e, quindi, a facilitare il riconoscimento reciproco delle decisioni in materia penale.”.

In parole povere, se l’Italia – lo Stato membro più condannato dalla CEDU – vuole che le proprie sentenze penali siano riconosciute dagli altri Paesi europei, deve garantire degli standard minimi comuni di civiltà giuridica.

Nella sostanza, la norma introduce il divieto di rappresentare come colpevole la persona sottoposta ad indagini e accentra nelle mani del Procuratore l’emissione di comunicati stampa, limitando le conferenze stampa ai soli casi in cui sia strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrano altre ragioni di interesse pubblico.

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In parole povere, fine degli arresti a favore di telecamera, alle conferenze stampa show, alle trasmissioni TV dedicate alle inchieste ancora in corso. Ma soprattutto, fine delle attribuzioni di responsabilità e affermazioni di colpevolezza prima che una sentenza definitiva le accerti.

Le resistenze all’interno delle forze politiche sono molte, anche all’indomani dell’entrata in vigore del decreto delegato: non più tardi di ieri è stato respinto dalla Camera dei Deputati, su parere conforme dell’ufficio legislativo di via Arenula, un ordine del giorno presentato dal responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, da sempre molto sensibile a queste tematiche, che impegnava il Governo a svolgere attraverso l’Ispettorato del Ministero della Giustizia un monitoraggio sull’applicazione delle nuove norme.

E questo nonostante l’art. 5 del decreto delegato preveda l’obbligo del Guardasigilli di provvedere alla rilevazione, analisi e trasmissione alla Commissione europea dei dati statistici previsti dall’art. 11 della Direttiva 2016/343.

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Francamente, non capisco quei Procuratori che ipotizzano scenari apocalittici, posto che la norma non limita affatto i loro poteri di indagine. Semmai li responsabilizza sul contenuto delle comunicazioni alla stampa.

Così come non capisco gli scenari di censura strisciante adombrati da gran parte della stampa, anche se comprendo che ricevere pressoché quotidianamente notizie direttamente dalle Forze dell’Ordine o dagli stessi PM alleggerisse di molto l’attività di inchiesta.

La presunzione di innocenza, sancita dall’art. 27 della nostra Costituzione, era diventata una chimera nel nostro paese fin dai tempi di Mani Pulite, allorquando gli avvisi di garanzia (previsti dal Codice a tutela dell’indagato, per dargli modo di difendersi) venivano rappresentati dalla Procura di Milano e dalla Stampa come una sentenza inappellabile di condanna.

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Da quel momento in poi, si è assistito alle pubblicazioni dei verbali degli interrogatori davanti ai PM, delle intercettazioni di comunicazioni, delle richieste di rinvio a giudizio prima ancora della loro notifica agli indagati.

La gogna mediatica è un retaggio di una cultura medioevale della giustizia che lascia sulle vite delle persone segni indelebili a prescindere dal successivo accertamento della verità o meno dei fatti attribuiti al malcapitato di turno negli articoli a otto colonne e nei talk show in prima serata. È una barbarie.

Alcuni la chiamano legge bavaglio, io la chiamo civiltà.

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