di Marco Betzu, professore di Diritto costituzionale all’Università di Cagliari
Invio di armi a Kiev, aumento della spesa militare e la domanda delle domande: se la Nato entrasse in guerra?
Ecco cosa possiamo e non possiamo fare secondo la Costituzione italiana.
La Costituzione italiana ripudia la guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”; l’obiettivo di assicurare “la pace e la giustizia fra le Nazioni” giustifica le limitazioni di sovranità che discendono dall’appartenere a organizzazioni internazionali – come le Nazioni Unite – che quell’obiettivo mirino a perseguire (art. 11).
Gli antecedenti storici contro i quali si pone l’art. 11 della Costituzione sono, o dovrebbero essere, a tutti noti: le guerre coloniali fasciste, l’intervento nella guerra civile spagnola, l’ingresso nella Seconda guerra mondiale al fianco dell’aggressore nazista. Il vivo ricordo di quelle esperienze spinse i Costituenti ad esprimere, attraverso il verbo “ripudia”, il rifiuto alle guerre di aggressione, che immani tragedie avevano causato negli anni precedenti. “Noi” – disse l’On. Damiani nella seduta dell’8 marzo 1947 – “non aggrediremo mai nessuno, ma se lo saremo ci difenderemo”.
Il ripudio della guerra come aggressione e del conflitto armato come mezzo per risolvere le dispute fra Stati non significava quindi, per i Costituenti, anche una rinuncia alla guerra difensiva. E infatti, se da un lato l’art. 52 qualifica come “sacro dovere del cittadino” la difesa della Patria, da un altro lato l’art. 78 attribuisce alle Camere il potere di deliberare lo stato di guerra, per evitare – sono ancora le parole di Damiani – che si possa ripetere “il grave crimine commesso nel 1940, quando l’intero popolo italiano fu trascinato alla rovina per la decisione di un solo uomo”.
Che, quindi, dalla Costituzione possa ricavarsi un principio pacifista inteso in senso assoluto, tale da impedire che il Paese possa – direttamente o indirettamente – prendere parte a un conflitto armato è idea che nella Costituzione non trova alcun fondamento, anzi. E’ significativo che proprio in Assemblea Costituente fu respinto un emendamento dell’On. Cairo, secondo cui “La Repubblica, nell’ambito delle convenzioni internazionali, attuerà la neutralità perpetua”, così come venne respinta la proposta dello stesso Cairo di abolire “lo strumento della guerra che è l’esercito” (22 maggio 1947).
La pace è dunque un valore costituzionale, ma è calato in Costituzione sotto forma di un principio che non può essere inteso in senso assoluto, dovendo essere bilanciato con altri valori di rango costituzionale. Nella Costituzione non esistono valori assoluti, essendo assoluto – come è stato autorevolmente scritto – soltanto il “meta-valore del pluralismo dei valori”.
Oggi, di fronte alla tragedia della guerra in Ucraina, dobbiamo chiederci se la Costituzione consenta o meno l’aiuto, anche attraverso la consegna di armi, a un popolo aggredito. A un popolo e un Paese, cioè, vittima proprio di quella guerra di aggressione che la Costituzione ripudia.
Qualcuno ha sostenuto che “Quando un bandito minaccia di sparare su una folla se non saranno accolte le sue richieste, o peggio ha già cominciato e continua a sparare, il dovere di quanti hanno il potere di farlo – in questo caso la comunità internazionale – è quello di trattare, trattare, trattare la cessazione della strage”. Altri, “nel rispetto del principio pacifista della nostra Costituzione”, si sono retoricamente chiesti: “veramente si pensa di poter fermare l’esercito di Putin contrapponendogli le vittime civili e armando gli aggrediti?”.
Simili approcci appaiono il frutto di quella che i giuristi chiamano una “sovra-interpretazione” della Costituzione, volta cioè a piegarne il testo in base alle ideologie dell’interprete. In altre parole, pur di trovare nella Costituzione quello che si vuole cercare – il pacifismo in senso assoluto – si finisce per forzarne la lettera, facendole dire ciò che essa non dice.
La Costituzione, infatti, nulla dice sulla liceità dell’aiuto tramite la fornitura di armamenti. Sicuramente l’art. 11 vieta la consegna di armi o il sostegno militare in favore degli Stati aggressori, perché a ragionare diversamente si eluderebbe il principio del ripudio della guerra come strumento di offesa. Ma certamente non impedisce un aiuto indiretto in favore degli aggrediti: esso, pur non essendo dovuto, non è nemmeno vietato. Si tratta di un’attività che è inquadrabile, infatti, nell’ambito di uno spazio rimesso alla discrezionalità politica e le valutazioni sull’opportunità politica sono altra cosa.
In questo spazio un peso rilevante esercitano gli accordi di diritto internazionale.
Non sarà superfluo ricordare che l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite riconosce “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”. Ciò vale a maggior ragione se l’aggressore è membro permanente del Consiglio di Sicurezza ed è quindi in grado di bloccare qualsiasi misura che possa concretamente interrompere il conflitto. Non è un caso che l’ordinanza della Corte Internazionale di Giustizia dello scorso 16 marzo, con la quale si imponeva alla Federazione Russa di “sospendere immediatamente l’operazione militare avviata il 24 febbraio 2022 sul territorio dell’Ucraina”, sia rimasta sostanzialmente lettera morta. E del tutto disattesa è stata anche la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che a grandissima maggioranza ha condannato l’invasione russa.
La consegna di armi all’Ucraina, allora, non solo non è in contrasto con la Costituzione, ma è anche pienamente compatibile con il diritto internazionale, rispetto al quale è la guerra di aggressione a costituire un illecito. Un illecito che coinvolgendo un membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu impedisce a quest’ultimo organismo di adottare le misure utili a porre fine alla guerra. Si svela, in questo modo, la natura “primitiva” del diritto internazionale, cui è inutile appellarsi se nel frattempo si lascia l’aggredito solo dinnanzi alla forza soverchiante dell’aggressore. Gli sforzi diplomatici non devono essere interrotti, ma da soli non bastano.
In conclusione, la storia ci dovrebbe avere insegnato che la politica dell’appeasement è destinata al fallimento al cospetto di Stati dispotici, perché può essere interpretata come sintomo di debolezza. La parabola di Neville Chamberlain rappresenta un ammonimento da troppi già dimenticato.