Pensieri sparsi sula domenica elettorale. Otto elettori su dieci che non vanno a votare i referendum e cinque su dieci che disertano le comunali, certificano lo stato deprimente e comatoso in cui versa la politica italiana, sempre più lontana dal sentire comune.
Non è che al cittadino non importa niente della giustizia o di chi fa il sindaco nel suo municipio: sono le ricette che gli vengono propinate a essere troppo spesso incomprensibili, confuse, indigeribili. Non è il referendum, prezioso e unico strumento di democrazia diretta, il bersaglio degli astensionisti: a disgustare è l’uso strumentale e manipolatorio che se ne fa. Per dire, se ci avessero chiamati a votare sì o no all’eutanasia, o anche alla liberalizzazione della cannabis, io penso che ci sarebbe stata la fila ai seggi. Ma se ci si chiede di votare sulle firme che un magistrato deve raccogliere per candidarsi al Csm, o sull’ingresso degli avvocati nei Consigli giudiziari per dare le pagelle al lavoro dei magistrati, io credo che sia legittimo, e anche giusto, andare al mare e mandare a quel paese chi ce l’ha chiesto: Salvini, le regioni di destra, i radicali, ma anche gli addetti ai lavori che dovrebbero dirimere queste questioni tecniche, il Parlamento che dovrebbe legiferare, la Corte costituzionale che ammette questi cervellotici quesiti e rigetta milioni di firme per poter votare sul fine vita.
Insegnerà qualcosa la legnata presa dai promotori di questi referendum farsa non votati nemmeno dai propri elettori? Servirà a cambiare regole e procedure per far sì che il cittadino sia chiamato ad esprimersi su scelte e valori di fondo (diritti civili, etica, beni comuni, riforme) e non per cambiare qualche codicillo di leggi incasinate? Chissà! A leggere le reazioni degli sconfitti non si direbbe. Tra loro brilla il leghista Calderoli, che vince il Premio Scemenza dicendo: “C’è stato un complotto che ha agito con singoli soggetti, magari non in forma associativa, ma ciascuno ci ha messo del suo, perché questo quorum non potesse essere raggiunto”.
Cambia ma non di molto il ragionamento sulle comunali. Certo, qui contano e fanno la differenza liste e candidati, la credibilità di chi aspira a fare il sindaco, e il primo turno l’ha dimostrato in diverse città. Me se si guarda in generale ai contenuti e alla proposta politica c’è da farsi cadere le braccia. Programmi sempre più simili ed evanescenti, lontananza crescente dai problemi quotidiani e concreti delle persone, poche idee ma confuse, sfiducia crescente, partiti costretti a nascondersi nel civismo, destra e sinistra senza più confini definiti e distinzioni sostanziali. Conte che sembra un ectoplasma, Calenda che sta un po’ di qua un po’ di là un po’ corre da solo, Renzi che si allea a destra e manca ma solo con chi si sa che vince, Letta che si barcamena nel campo largo che non c’è, Salvini, Meloni e Berlusconi alleati contro. Da farsi venire il mal di testa. Come stupirsi sei cittadini se ne stanno a casa?
Politicamente parlando, si può dire che il primo turno delle amministrative l’hanno vinto Meloni e Letta e che Salvini e Conte sono i grandi sconfitti. Ma il dato principale è l’ulteriore scomposizione e frammentazione del quadro politico. I Cinquestelle, primo partito nel 2018 e maggioranza in Parlamento, sono in via di estinzione (complessivamente poco sopra il 2% nel voto di lista di domenica). La Lega che prese il 34% alle europee di tre anni fa, è ridotta al 6-7% nel voto di lista del 12 giugno (e al 16-17% nei sondaggi nazionali), sorpassata dai Fratelli d’Italia da Nord a Sud . Il Pd torna primo partito ma al ribasso, attorno al 17% nei comuni sopra i 15mila abitanti dove si è votato (21-22% nei sondaggi nazionali). Italia viva è superata da Azione nella spasmodica rincorsa alla costruzione di un centro che però non esiste e ottiene “zero tituli”, solo in parte compensati dal successo delle liste civiche. L’unico partito in costante ascesa è Fratelli d’Italia (10% alle ultime comunali, 21-22% nei sondaggi nazionali).
Da qui alle elezioni politiche del prossimo anno molte cose sono destinate a cambiare. Salvini, che da tempo non ne azzecca una, non sarà più il leader del centrodestra, che comunque – potete scommetterci – si ricompatterà anche sotto la guida molto più destra della Meloni.
Nel centrosinistra il campo largo immaginato dal Pd di Zingaretti e da Bersani ha il fiato corto. I Cinquestelle ai minimi termini e troppi maschi alfa. Allargando lo sguardo, si può immaginare che Letta, se vuol provare a vincere, dovrà cercare di costruire un’alleanza che vada da Bersani a Conte, Renzi e Calenda. Dovrebbe fare come Melanchon in Francia, una Nupes o un nuovo Ulivo per aggregare tutti i pezzi della sinistra politica, sociale ed ecologica attorno a un unico progetto. Sarebbe quello che l’elettorato di sinistra vuole. Probabilmente sarebbe anche il modo per riportare un po’ di elettori alle urne. Ma ci vorrebbero pensieri lunghi e gioco di squadra. E con i soggetti e le prime donne che ci ritroviamo sarà una gara dura.