A Berlino, splendida città-capitale proiettata nel futuro, c’è una visita obbligata: quella al Jüdisches Museum, il Museo ebraico. E’ un viaggio nel tempo e nella rivisitazione che la Germania ha fatto della pagina più oscura, terribile, della sua storia. Una rivisitazione dolorosa ma salutare. E salutare proprio perché dolorosa. E se è veroche senza memoria non c’è futuro, Berlino è agli antipodi di Roma.
Una considerazione che si cala perfettamente nella tragicommedia della politica italiana. Cosa c’entra la memoria? C’entra, e tanto. Perché ad una classe dirigente (si fa per dire) degradata e degradante fa da contraltare, nel belpaese, una società, cosiddetta civile – un tempo si sarebbe parlato di popolo, oggi di gente – che dal passato non ha tratto lezione alcuna. Viviamo in un eterno presente. E ciò che può accadere il 26 settembre fa del presente un incubo: Giorgia Meloni che riceve da Mario Draghi la “campanella”, simbolo del passaggio delle consegno a Palazzo Chigi. E’ il passato che non passa. Ma che ritorna nei suoi aspetti peggiori. Proprio di un Paese senza memoria.
A coglierne la portata è un articolo da incorniciare del New York Times. Che bene ha fatto Huffington Post a rilanciare.
“Il futuro è l’Italia, ed è desolante”. Così titola il New York Times, dedicando un articolo alle prospettive politiche del nostro Paese e concentrandosi in particolare sull’ascesa di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia. L’autore dell’editoriale, lo storico e giornalista David Broder, che sta lavorando a un libro sul fascismo nell’Italia contemporanea, ripercorre la parabola di Meloni, evidenziando come il successo editoriale del suo libro di memorie “Io sono Giorgia” (di cui viene citato il passaggio: ‘Se questo deve finire in un incendio. Allora dovremmo bruciare tutti insieme’, tratto dalla canzone I see fire di Ed Sheeran) sia coinciso con l’aumento del consenso verso Fdi nei sondaggi nazionali. “Da allora – si legge – Meloni ha continuato a vantare oltre il 20% di supporto e ha costituito l’unica grande opposizione alla coalizione guidata da Mario Draghi. Ora che il governo è caduto, scrive Broder, “le elezioni anticipate, previste per l’autunno, potrebbero aprire la strada a Fratelli d’Italia, facendolo diventare il primo partito di estrema destra a guidare una grande economia dell’eurozona. Per l’Europa e il Paese, sarebbe un vero e proprio evento sismico”. Si tratterebbe di un’evoluzione notevole, prosegue l’autore, “per un partito che nel 2018 si è assicurato solo il 4% dei voti”. Negli ultimi anni, afferma Broder, Fdi “è diventato l’unica forza trainante della destra, al comando della cosiddetta alleanza elettorale di centrodestra che comprende anche Lega e Forza Italia”. Dietro questa ascesa, si legge, c’è una leader che, ancor più di Marine Le Pen in Francia, si sforza di affermare i valori storici del suo partito, ma c’è anche “il malessere economico endemico dell’Italia”. La crescita del nostro Paese, scrive il Nyt, “è rimasta piatta negli ultimi due decenni, mentre il debito pubblico incredibilmente alto ha ostacolato gli sforzi per rilanciare il Paese. La disoccupazione giovanile è sempre elevata e la disuguaglianza regionale è profondamente radicata. In questa atmosfera di declino, il messaggio di Fratelli d’Italia – che la salvezza nazionale può essere trovata solo tenendo lontani i migranti e nella difesa della famiglia tradizionale – ha trovato un pubblico ricettivo”. Il successo del partito di Giorgia Meloni – si legge ancora – è anche frutto “di una rottura delle barriere tra il centrodestra tradizionale e l’estrema destra, che si sta diffondendo in tutta l’Europa occidentale e in America. Fortemente indebitata, socialmente polarizzata e politicamente instabile, l’Italia è solo il Paese in cui il processo risulta più avanzato”. Non è un caso che il partito Vox in Spagna, salito al 20 per cento nei sondaggi, “consideri Meloni un’ispirazione”. Insomma, afferma l’editoriale, “se si vuole conoscere cosa accadrà in futuro, bisogna guardare” al nostro Paese. “Forse non bruceremo tutti insieme nel fuoco. Ma se l’estrema destra salirà al governo, in Italia o altrove, sicuramente qualcuno di noi lo farà”, conclude Broder.
Così HP.
Visti da Berlino
Di grande interesse è l’articolo su Start magazine a firma Pierluigi Mennitti: ““I mercati finanziari non mancheranno di reagire agli eventi italiani di giovedì”. Più che una minaccia è una certezza quella che la Frankfurter Allgemeine Zeitung esprime nell’apertura del commento dedicato alla crisi del governo di Mario Draghi.
Il titolo è cinematografico, “La tempesta perfetta”, lo svolgimento drammatico: “Le ormai previste dimissioni del governo porteranno probabilmente a nuove elezioni in settembre o ottobre e quindi a un prolungato periodo di incertezza. Questo è l’esito che i mercati temono. Già mercoledì i prezzi delle azioni alla borsa di Milano erano scesi dell’1,6%, molto più che in altri mercati azionari europei. I titoli di Stato decennali dell’Italia hanno un rendimento del 3,5%, superiore a quello della Grecia. Ciò significa che gli investitori assumono rischi più elevati per l’Italia rispetto al Paese che qualche anno fa era finanziariamente sull’orlo del baratro”.
È tornata l’Italia di sempre, inaffidabile e pericolosa per i suoi partner, scrive lo Spiegel, che ricostruisce quello che definisce “il giorno della follia”: discorsi, intrighi, repliche, sotterfugi, fino al defilamento di quelle che la stampa chiamava “le destre di governo”. Ci sono molte vedove di Mario Draghi in Germania, e fa un certo effetto leggerle su quella stampa che, quando era a capo della Bce, lo accusava di strozzare il risparmiatore tedesco e di gettare il denaro dalla finestra.
Ma quel che più preoccupa i tedeschi è il dopo, quel che accadrà da domani e soprattutto dopodomani, quando le urne, qui ne sono tutti convinti, premieranno un governo sovranista trainato da Giorgia Meloni, che la stampa tedesca, anche quella conservatrice, definisce un’estremista di destra. Per essere chiari, Meloni gode in Germania di una stampa peggiore addirittura rispetto a Matteo Salvini, pur non avendo sulle spalle il peccato di frequentazioni europee con estremisti come i tizi di Afd.
Per l’Italia declinante, i quotidiani ricorrono a vocabolario dal sapore letterario, ricco di enfasi, come si conviene per un Paese amato ma mai in fondo capito: “L’Italia prigioniera dei suoi vecchi demoni”, racconta la Süddeutsche Zeitung, “che ora rischia di affondare nell’incertezza”. Un “dramma estivo” l’addio di Draghi, “una colossale perdita per il Paese nel momento più stupido”.
Con Draghi, l’Italia ha guadagnato prestigio internazionale negli ultimi diciassette mesi, riprende il quotidiano di Monaco: “Ovunque parlasse, veniva ascoltato, l’Italia veniva ascoltata. E tutto ruotava intorno a lui, al prestigio e al curriculum dell’ex capo della Banca centrale europea”.
Il suo stile ruvido alla fine lo ha tradito: “Draghi ha governato come un tecnocrate. A volte un po’ di diplomazia non avrebbe guastato. A volte i partiti hanno avuto l’impressione di essere presenti solo per approvare le decisioni del gabinetto”. A un certo punto, quelli che precipitavano nei sondaggi, hanno cominciato a prendere le distanze. “Draghi avrebbe potuto tenerli in riga ora, con uno o due gesti prima delle elezioni. Ma questo non sarebbe stato il suo stile, non sarebbe stato adatto alla sua natura”, conclude la Süddeutsche.
Ancora la Frankfurter, appassionata di numeri e grafici: “Il divario dei tassi d’interesse (spread) tra le obbligazioni decennali della Germania e dell’Italia è salito a volte fino a quasi 240 punti, poi è sceso di nuovo in modo significativo. Alcuni operatori di mercato ritengono che la Banca Centrale Europea sia attiva come acquirente, ma ciò non è confermato. La Banca centrale vuole contrastare la forte divergenza dei tassi di interesse nell’area dell’euro perché, secondo i suoi timori, la politica monetaria non funzionerebbe più. Oggi, giovedì, il Consiglio direttivo della Bce discuterà nuove misure per contrastare l’impennata dei tassi di interesse. La crisi di governo in Italia accresce il dilemma perché lo statuto della Banca non le consente di diventare un attore politico, ma i suoi interventi possono avere un carattere politico”.
Il problema è tutto qui, nell’Italia tornata mina vagante della casa comune, mentre le sfide sono diventate estreme: la guerra, l’energia, l’inflazione, la probabile recessione. I finanziamenti del Pnrr avrebbero potuto rimettere in piedi una baracca che sembrava allo sbando, ma c’era bisogno di una guida competente e credibile e la si è dovuta prendere (ancora una volta) al di fuori del perimetro politico che alle ultime elezioni aveva premiato solo populisti. Un cane che si morde la coda.
“Draghi aveva annunciato ulteriori riforme economiche al Senato e il completamento delle misure già avviate, ma ha anche promesso misure sociali di accompagnamento, come un salario minimo a livello nazionale”, conclude il quotidiano di Francoforte, “ha proposto ai parlamentari un nuovo patto di fiducia. Siete pronti a riaffermare gli sforzi che avete fatto nei primi mesi, ma che poi sono svaniti?, ha chiesto. Mercoledì sera i deputati hanno dato una risposta chiara: no”, conclude Minnitti.
Così ci vedono da fuori. Ed è una visione tetra ma vera. Inquietante ma reale. Un tempo, mai così lontano, l’Italia era un laboratorio politico che attirava l’attenzione, non le paure, del resto d’Europa e anche oltre i confini del vecchio continente. Era il decennio ‘68-’78: gli anni della contestazione, delle grandi battaglie per i diritti civili, della nascita e dell’affermazione dei Consigli di fabbrica unitari, il cui orizzonte andava ben oltre quello del vecchio sindacato “salarialista”. Erano gli anni del Pci di Berlinguer, della nascita di Magistratura democratica, Psichiatria democratica, Medicina democratica, della bella politica che innervava i vari campi dell’agire sociale e del pensiero. Gli anni dell’egemonia culturale della sinistra. Gli anni della rivolta e della speranza. Chi scrive non si sogna nemmeno di poter spiegare perché quella stagione della speranza di cambiamenti radicali sia man mano sfiorita fino a scomparire del tutto. L’Italia di oggi assomiglia sempre più all’affresco cinematografico di un grande maestro come è stato Ettore Scola. Il film è del 1976. Il titolo “Brutti, sporchi e cattivi”. Scola aveva anticipato i tempi, smitizzando l’immagine iconoclastica di poveri ma belli. E’ inutile girare attorno alla realtà. E’ il modo peggiore per soccombere. L’Italia di cui aver paura la prende di petto un bravo giornalista americano. In questa Italia senza memoria, non esiste sinistra. Perché la sinistra ha negato se stessa, corrosa da quella brutta malattia che si chiama “ governismo”, per la quale esisti solo se sei dentro al “Palazzo” (Chigi, magari). Il governo non è più strumento (del cambiamento), ma il fine. E i partiti a questo servono: a portare nei palazzi del potere una nomenclatura sempre più autoreferenziale. Certo, fuori dai partiti-macchina elettorale, c’è vita. C’è un mondo solidale che sta dalla parte dei più indifesi, che crede nella pace giusta e non accetta la favola, insanguinata, della “guerra giusta”. Ma questo mondo che non si arrende non trova una rappresentanza degna. Nel vocabolario politico “governisti” sedicenti progressisti e di sinistra, alcune parole sono bandite. Impronunciabili. Come la parola “socialismo”. Ci si può definire democratici, magari pure progressisti, ma guai solo a pensarsi, e ancor più a dirsi, “socialisti”. Chi non ha memoria, non ha futuro. In Germania così non è. A guidare il Paese, è un cancelliere socialista, che viene dalle fila della vecchia Spd, il partito che fu di Marx ed Engels. In Germania esistono e contano, e contano perché esistono nelle battaglie di tutti i giorni, i Verdi (Bündnis 90/Die Grünen, Allenza90/Verdi).
E, soprattutto nell’est tedesco, esiste anche un partito che si colloca a sinistra della Spd, Die Linke, che tradotto è “Sinistra”. “Sinistra”. Altra parola che sembra essere uscita fuori dal lessico politico di cosa nostra. Se uno nega se stesso, non esiste. Si autocancella. Diventa la fotocopia dell’altro da sé. La destra non ha timore di definirsi tale. Anzi se ne fa vanto. Una destra identitaria, aggressiva, ideologica. Ecco altre due parole che fanno paura a sinistra: “identità” e “ideologia”. Parole bandite, come fossero parolacce o retaggio di un passato di cui si ha vergogna o si ritiene archeologia del secolo scorso. Ma l’ideologia altro non è che una visione strutturata del mondo, delle relazioni sociali, dell’organizzazione dello Stato. Definisce da che parte stai. La sinistra ha perso prima nella società e dopo, di ricasco, nelle urne. Ha perso perché non produce più cultura, non definisce un senso comune. E’ percepita come la parte dell’establishment”.
La “sinistra Ztl”. Una sinistra che non sa essere “partigiana”, nel senso più alto e nobile del termine. Essere parte di un popolo che in essa si riconosce. Essere partigiana delle cause che ne hanno costruito le ragioni storiche: la pace, la giustizia sociale, l’antifascismo. Ma come può esistere e avere una capacità attrattiva, una sinistra che annoverava tra le sue fila un ministro dell’Interno che dichiarò guerra alle Ong che operavano nel Mediterraneo per salvare la vita di una umanità in fuga da guerre, povertà, sfruttamento, disastri ambientali, facendosene vanto e proclamando che “sicurezza e parola di sinistra”. Sicurezza! Non legalità e diritti. Non inclusione. Non corridoi umanitari. Così l’allora ministro dell’Interno, Marco Minniti, spianò la strada al suo successore al Viminale, Matteo Salvini. E forse in un futuro che si fa presente, a Giorgia Meloni.
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