Yossi Klein Halevi è ricercatore presso lo Shalom Hartman Institute di Gerusalemme. Insieme all’Imam Abdullah Antepli della Duke University, co-dirige la Muslim Leadership Initiative (Mli) dell’Istituto, che insegna ai giovani leader musulmani americani emergenti sull’ebraismo, l’identità ebraica e Israele. Il libro di Halevi del 2013, Like Dreamers, ha vinto l’Everett Book of the Year Award del Jewish Book Council. Il suo ultimo libro, Lettere al mio vicino palestinese, è un best seller del New York Times. Il professor Klein Haleviscrive per importanti pagine editoriali negli Stati Uniti, tra cui il Times e il Wall Street Journal. La presentazione è dovuta per una ragione su tutte: perché nessuno possa accusare Yossi Klein Halevi di essere un “antisemita”, amico di chi vorrebbe distruggere Israele.
“Non ci sono bombardamenti buoni”.
Scrive Klein Halevi per Haaretz: “Il rapporto tra esercito e civili si basa sulla fiducia. Nessuna sanzione al mondo potrebbe costringere i genitori a mandare i propri figli nell’esercito se non credessero che le Forze di Difesa Israeliane hanno un altro obiettivo se non quello di proteggere la nostra sicurezza. Ma questa fiducia si è erosa.
Secondo l’Israel Democracy Institute, dall’inizio dell’anno la fiducia dell’opinione pubblica nelle IDF è scesa al minimo degli ultimi 13 anni. Il portavoce dell’esercito si è guadagnato questa sfiducia in modo onesto. Una lunga lista di bugie lo accompagna. Perché dovremmo credergli ora?
Io non credo al governo, all’esercito o agli opinionisti adulatori negli studi. Quando bombardano Gaza per “evitare un’escalation” e quando uccidono per “raggiungere la calma”, mi sento come se mi stessero prendendo in giro. Dopo tutto, abbiamo già visto questo film.
Ancora la “distruzione dell’infrastruttura del terrore”? Ancora bambini che si uccidono e case che esplodono di loro spontanea volontà? Perché sono state uccise persone a Gaza? Ah, la risposta è complicata, non possiamo dirvi tutto, fidatevi. Non è stata un’operazione dolce? Abbiamo già fatto i conti con il fatto che l’Idf partecipa alle elezioni.
Già non ci chiediamo perché, anche a due mesi dalle elezioni. A chi dovremmo chiederlo? Noi sospiriamo, contiamo, siamo l’elemento meno importante. Chi colpisce i terroristi a Jenin sa che ad Ashkelon ne pagheranno il prezzo. Gli importa?
I soldati sono pedine di un gioco politico. L’esercito obbedisce al governo, ed è così che dovrebbe essere. Il governo vuole uccidere? L’esercito gli mostrerà come fare. Lapid vuole maturità in battaglia? L’ha ottenuta. L’Idf lo asseconderà anche se sa di non essere altro che una pedina nella gara a chi è più grande. Tutti partecipano; guardate i post sui social media: Ha insegnato a Bibi una o due cose! Anche Lapid sa come uccidere! Il pubblico è più nazionalista e più religioso e lo sono anche gli ufficiali dell’esercito. L’impatto dei rabbini sull’esercito sta crescendo. I rabbini hanno un’agenda politica, che è quella di impedire uno Stato palestinese a Gaza e in Cisgiordania. Tutti i governi da Rabin in poi hanno servito questa agenda, così come l’operazione Breaking Dawn, così come i nostri figli.
Allora perché dovremmo stare con le mani in tasca e continuare a mandarli nell’esercito? Per abitudine, per finto patriottismo, perché i nostri figli vogliono uccidere. Dobbiamo fidarci dell’Idf, che scelta abbiamo? Essere responsabili del loro destino in un corpo di cui non ci fidiamo?
L’Idf è il bullo del quartiere. Fornisce al quartiere protezione in cambio di servizi. Noi e Hamas non siamo amici. Il rapporto è corretto; i ruoli sono chiari: Hamas non lascerà che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas controlli la Striscia di Gaza, e noi gli forniremo in cambio servizi di uccisione. La Jihad islamica vi dà fastidio? Ditelo e basta. Consideratelo come un brindisi. Ieri Hamas era contro di noi, oggi è con noi. Ieri un nemico, oggi un amico.
Ma non è stato Hamas a portarci a Gaza. È stata la paura della violenza dei sostenitori del leader dell’opposizione Benjamin Netanyahu a mandarci lì. Cosa, abbiamo paura del pagliaccio Amsalem, del bieco Regev? Sì, è una paura negata e repressa. Una paura negata e repressa, ma pervasiva. Queste non sono solo minacce. Perché non sono solo loro, è la strada che sostiene la demolizione della Corte Suprema, dei media e della sinistra; è la strada che vuole metterli al muro, è la strada che detta le condizioni del prossimo governo.
Ne abbiamo paura e vogliamo che ci piaccia. E non c’è regalo più grande dei bombardamenti. I bombardamenti sono la conferma definitiva dell’amore per la terra, sono la prova dell’umiliante resa dei cuori sanguinanti alla paura e alla disperazione. Guardate, dicono, stiamo facendo, non stiamo solo parlando. Bibi, sostienici!
La guerra ci trasforma in infantili cheerleader per chiunque faccia quello che hanno fatto prima di lui e faranno dopo di lui: Uccideranno bambini e donne solo per poter uscire come uomini. Nessuno ha il coraggio di alzarsi e dire: “Tutti si sbagliano”. Nel giugno 1982, Yossi Sarid ebbe il coraggio di opporsi alla guerra in Libano. Prima si erano alzati i generali Mati Peled e Meir Pa’il. Oggi, nessuno si alza.
Poco prima dell’inizio dell’operazione a Gaza, Eli Aminov è morto. Nel settembre 1967, Aminov firmò una dichiarazione formulata con agghiacciante precisione: “L’occupazione porta al dominio straniero/Il dominio straniero porta alla resistenza/La resistenza porta all’oppressione/L’oppressione porta al terrore e all’antiterrorismo/Le vittime del terrore sono di solito innocenti”. Ma permettetemi di aggiornare: il terrore e l’antiterrorismo portano alla disintegrazione. Prima i buoni se ne andranno, e quelli che rimarranno si massacreranno a vicenda”.
Così Klein Halevi.
La “normalità” che sa di morte.
A oltre 15 anni dall’inizio del blocco israeliano su Gaza, ancora 2,1 milioni di persone vivono reclusi, in quella che di fatto è una prigione a cielo aperto. Un’intera generazione di giovani palestinesi, oltre 800 mila, hanno trascorso la loro intera vita in questa situazione, senza conoscere nient’altro.
È la denuncia che aveva lanciato Oxfam alla vigilia del quindicesimo anniversario dall’inizio delle restrizioni imposte sulla Striscia, di fronte ad una situazione di cui non si intravede nessuna soluzione negoziata tra le parti, nonostante gli sforzi umanitari sostenuti dalla comunità internazionale e dalle Nazioni Unite, che fino ad oggi hanno stanziato 5,7 miliardi di dollari in aiuti.
“Siamo di fronte ad una crisi divenuta cronica, che costringe organizzazioni come Oxfam – da anni operativa sul campo – a lavorare per garantire la mera sopravvivenza di una popolazione sfinita, eppure straordinariamente resistente –affermava in quel frangente Paolo Pezzati, policy advisor di Oxfam per le emergenze umanitarie – In questo momento 7 persone su 10 a Gaza dipendono dagli aiuti umanitari per far fronte ai bisogni essenziali di ogni giorno. Il controllo di Israele sulla Striscia è pressoché totale e si spinge a livelli paradossali e punitivi nei confronti della popolazione. Pensiamo alle regole sull’esportazione di pomodori, che di fatto impediscono ai produttori di vendere ciò che hanno coltivato. Rivolgiamo un appello al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, affinché una revoca immediata del blocco su Gaza divenga prioritaria nell’agenda internazionale”.
#OpenUpGaza15: una campagna per ridare speranza
E’ la campagna di sensibilizzazione per restituire speranza a una generazione che rischia di perderla per sempre. Basti pensare che il 63% dei giovani a Gaza non riesce a trovare lavoro e 4 ragazze su 5 non hanno un’occupazione retribuita.
“Molte restrizioni israeliane hanno ragioni politiche, non certo di sicurezza. Le famiglie palestinesi di Gaza subiscono collettivamente una punizione illegale –aggiunge Pezzati – Israele impedisce l’esportazione di pasta di datteri, biscotti e patatine fritte, ha interdetto l’uso del 3G e del 4G sui cellullari, non c’è PayPal. Certamente questo non è un paese per giovani.”
Le storie dei giovani perduti di Gaza
La campagna #OpenUpGaza15 racconta la storia di 15 ragazzi, le privazioni quotidiane, gli ostacoli, le difficoltà con cui devono fare i conti per vivere e coltivare i propri interessi.
Come quella di Ahmad Abu Dagga che a 15 anni è bravissimo in scienze, ma teme che finirà la scuola senza aver mai visto un microscopio; o quella di Alaa Abu Sleih, 23 anni, nato con una disabilità, che quando si è rotto il pannello dei comandi della sua sedia a rotelle non ha potuto averne uno nuovo, mentre le gomme si stanno consumando e non sa come riuscirà a muoversi.
Le restrizioni limitano la possibilità di portare aiuti
In questo momento è perciò difficilissimo portare aiuti alla popolazione di Gaza, promuovere lo sviluppo per un’organizzazione come Oxfam, che al pari di altri lavora tra le mille restrizioni imposte da Israele sui servizi e sulla mobilità di risorse e persone. Val la pena ricordare a questo proposito che il 97% dell’acqua corrente non è potabile a Gaza e che la fornitura di elettricità è limitata a 12 ore al giorno.
Urgente un piano vincolante per la rimozione del blocco
“Le Nazioni Unite e i gli Stati membri devono usare tutta la diplomazia possibile per porre fine al blocco – conclude Pezzati – Tutte le parti devono impegnarsi per un piano con precise scadenze e stringenti meccanismi di rendicontazione. Crediamo davvero sia giunta l’ora di consegnare alla storia questi 15 anni di blocco.”
L’agonia di Gaza
Gaza, una prigione che torna a fare notizia quando si fa la conta dei morti, quando torna ad essere un teatro di guerra. Allora i riflettori si riaccendono, i media ne tornano a parlare. Dimenticando che la vera, grande tragedia di Gaza e della sua gente, è la normalità. Ed è nella ‘normalità’ che Gaza muore. Nel silenzio generale, nel disinteresse dei mass media, nella complicità della comunità internazionale, nella pratica disumana e illegale delle punizioni collettive perpetrate da Israele, nel cinico operare di Hamas, Gaza sta morendo. L’assedio sta privando una popolazione di 2,1milioni di abitanti, il 56% al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua. A otto anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni degli oltre 2 milioni di abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo. Una situazione drammatica, rimarcava un precedente report di Oxfam, aggravata degli effetti del quindicennale blocco di Israele sulla Striscia, di cui le prime vittime sono oltre 2 milioni di persone che devono sopravvivere con uno scarsissimo accesso all’acqua e una situazione igienico-sanitaria in continuo peggioramento. Basti pensare che il 95% della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40% di perdite) non è potabile o perché oltre 40mila abitanti non sono allacciati alla rete. A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi di disoccupazione.
Questa è la vita a Gaza, se di vita si può parlare. E chi governa Israele come chi impone la sua legge nella Striscia, lo sanno bene. Come lo sa bene la comunità internazionale, capace solo di invitare alla moderazione o (l’Onu) a prospettare una commissione d’inchiesta, ripetendo una stanca litania che fa seguito all’esplosione della violenza. Tutti conoscono la realtà di Gaza, la tragedia umana che in essa si consuma. Ma questa consapevolezza non porta alla ricerca di un accordo, di una pace giusta, duratura, tra pari. Non impone rinunce per ridare speranza. Costa meno combattere, perché, tanto, a chi vuoi che possa interessare la sorte di due milioni di persone ingabbiate nella prigione chiamata Gaza. Ora poi che vengono osannati i “buoni bombardamenti”.
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