Un disastro annunciato. Finisce 44 a 27 con Fratelli d’Italia al 26 che si mangiano mezza Lega (precipitata al 9), Forza Italia che tiene (8), la lista Pd al 19 tallonata dalla rimonta dei Cinquestelle che superano il 15, Sinistra e Verdi poco sopra il 3, Calenda-Renzi sotto l’8, +Europa fuori dal Parlamento, Di Maio non pervenuto e nemmeno rieletto. Con la destra che conquista la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e al Senato ma non quella dei due terzi necessaria per cambiare la Costituzione senza passare per il referendum, e con quasi il dieci per cento in meno di votanti rispetto a quattro anni fa, un calo ascrivibile agli elettori delusi della sinistra andati o rimasti nel bosco.
Spiace dirlo, ma è il fallimento totale della linea Letta. Con responsabilità enormi di tutto il gruppo dirigente del Pd che non ha saputo o voluto opporsi a un suicidio politico che era fin dall’inizio chiarissimo. La destra divisa ma elettoralmente unita nell’orrido Rosatellum stravince le elezioni pur non essendo maggioranza nel paese. Il centrosinistra diviso ma incapace perfino di usare la legge elettorale che aveva partorito, straperde pur sfiorando il 50%. Certo, se tutto l’arco potenziale di quell’area fosse confluito nel “campo largo” probabilmente le percentuali dei singoli non sarebbero state le stesse. Si può ipotizzare che Conte sarebbe rimasto più basso, e che Renzi sarebbe rimasto fuori, ma ce la si poteva giocare. Invece si è scelto di andare ognuno per sé, di coltivare ciascuno il proprio orticello, pur sapendo che così non ci sarebbe stata partita.
La responsabilità principale è del segretario del Pd, che dallo scoppio della guerra in poi ha spostato l’asse politico del suo partito più al centro, allineato senza se e senza ma con Biden e la Nato, a favore del riarmo, arroccato in difesa di Draghi e della sua agenda moderata, fino alla “fatwa” contro Conte per aprire le porte all’alleanza con Di Maio e ricandidare Casini a Bologna. Scelte mai digerite da quella parte dell’elettorato Pd che vorrebbe un partito con una più spiccata identità di sinistra e che guarda ancora con nostalgia alla stagione dell’Ulivo.
Non è un caso se nella rossa Emilia-Romagna molti di loro sono rimasti a casa, hanno votato Cinquestelle, Sinistra italiana e Verdi, Unione popolare e oggi anche qui la destra è maggioranza, ha conquistato dieci collegi uninominali su sedici con il Pd che ha perso pure in roccaforti come Modena e Ravenna. Ma non sono minori le responsabilità di Conte, che votando la sfiducia a Draghi ha scelto la strada contro più conveniente dell’opposizione e della corsa in solitaria, di Calenda, che ha stracciato l’accordo con Letta un minuto dopo averlo sottoscritto, e di Renzi che ha sempre lavorato contro tutto quel che sapeva vagamente di sinistra.
Ci sarà molto da ricostruire a sinistra. E non basterà cambiare il segretario. Penso che il Pd sia a un bivio. Dovrà decidere dove vuole andare, darsi una strategia, se riaprire il dialogo con Conte e riprendere il cammino interrotto per la costruzione di un campo progressista alternativo alla destra, oppure collocarsi stabilmente al centro del panorama politico in compagnia degli altri moderati che però sono parenti serpenti. Soprattutto dovrà darsi una identità, quell’identità che fin dalla sua nascita è stata indefinita, a tratti ambigua, conseguenza di una operazione di ceto politico più che di unità sui valori e contenuti, da partito dell’establishment più che di popolo e di sinistra. Una vera rifondazione, che potrebbe e forse dovrebbe andare oltre il Pd, verso la costruzione di un nuovo soggetto politico.
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