Brisighella: l'eccidio nazi-fascista dimenticato e i martiri senza nome

Dopo un'azione partigiana i tedeschi decisero una rappresaglia: uccisero cinque 'comunisti'. Gli assassini in libertà e le vittime dimenticate

Amilcare Piancaldini, una delle vittime dell'eccidio nazista
Amilcare Piancaldini, una delle vittime dell'eccidio nazista
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Claudio Visani Modifica articolo

1 Giugno 2023 - 00.43


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Estate 1944, Brisighella è ancora sotto l’occupazione nazifascista, gli alleati anglo-americani temporeggiano a sud della linea Gotica, sui monti a combattere per la liberazione ci sono i partigiani. La notte del 20 luglio un gruppo di combattenti guidato da Sesto Liverani, nome di battaglia Palì, comandante del Distaccamento “Celso Strocchi”, tende un agguato a una macchina tedesca che sale lungo la statale che va da Brisighella (Ravenna) verso Marradi (Firenze), nei pressi della frazione di Casale, all’incrocio con la via Aurora. Nell’assalto muoiono alcuni soldati tedeschi (cinque secondo il comando della Wehrmacht, uno o due secondo testimonianze locali) e un partigiano rimane ferito. Il giorno dopo scatta la rappresaglia nella zona di Casale e nelle adiacenti Valcasale e Valle di Tura. Due case, I Poggioli e Valbonella, sospettate di avere dato riparo ai partigiani, vengono incendiate.

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La legge dei nazifascisti è: 10 civili fucilati per ogni tedesco ucciso. Vorrebbero portarne via 50, ma ne trovano “solo” una trentina, quasi tutti maschi anziani. “Kaputt, kaputt”, urlano alle loro famiglie disperate. Li tengono prigionieri prima in una casa di campagna in località Pietramora, poi nell’obitorio di Brisighella. Il clima tra la popolazione locale è pesante. Pochi giorni prima, il 17 luglio, c’è stato l’eccidio di Crespino, località dell’Appennino tosco-romagnolo (43 civili uccisi, compreso il parroco), il capo delle Camicie nere del luogo, Amadio Cavalli, teme disordini e ritorsioni, la Resistenza è forte e agguerrita, sostenuta dalla popolazione, e la guerra ormai è persa.


Cinque giovani carcerati da fucilare al posto dei civili
Forse fascisti e tedeschi si convincono che è meglio evitare una nuova strage di civili. Sta di fatto che decidono un altro tipo di rappresaglia, più “politica”. Vanno a prelevare cinque prigionieri, che etichettano come “partigiani comunisti”, che sono detenuti nell’ex brefotrofio di Forlì trasformato in carcere di tortura dalle SS, e li portano a Casale, sul luogo dell’agguato. Sono tutti giovani, uno è mutilato a un piede. Il camion con i condannati a morte arriva all’imbrunire davanti all’Osteria del paese. Il plotone d’esecuzione scende e armi in pugno ordina ai civili presenti di chiudersi nelle case e di serrare le imposte. Poco dopo da quelle case e da tutta la valle si ode il crepitio lugubre delle raffiche di mitra. Le famiglie sono terrorizzate: quelle che hanno congiunti arrestati pensano che siano stati fucilati, le altre che tra poco toccherà anche a loro. E’ già buio quando tedeschi e fascisti fanno uscire tutti dalle case, minori e donne comprese, in tutto una cinquantina di persone, e li raggruppano, spingendoli con il calcio dei fucili, contro il muro esterno dell’Osteria. Poi li mettono in fila e li costringono a una mesta processione verso la casa dei Poggioli.

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Un macabro rito attorno ai cadaveri
Lì, a ridosso della Statale, ci sono i corpi distesi di quei cinque poveri disgraziati. Non gli hanno nemmeno dato il colpo di grazia, almeno uno di loro è ancora vivo e si muove. I civili sono costretti a scavalcare quei corpi e a guardare i loro visi in segno di spregio, mentre un ufficiale tedesco spiega loro cosa succede ai “ribelli” e a chi li aiuta. Lo stesso macabro rito si ripete l’indomani mattina, questa volta con gli abitanti delle case delle valli scesi in paese per verificare se i colpi della sera prima erano stati diretti ai loro cari arrestati. I corpi sono ancora lì, distesi a terra. Sul sangue rappreso dei loro volti si posano già le mosche. I repubblichini li irridono anche da morti: “Guardate quello che ghigno che fa… Guardate gli occhi sbarrati di questo, e il piede storto di quell’altro”, dicono sghignazzando alle persone che costringono a girare attorno ai cadaveri. Poi prendono tre o quattro uomini, danno loro delle pale e ordinano di scavare una buca quadrata grande abbastanza per contenere i cinque corpi. Finito il lavoro, buttano dentro i cadaveri alla rinfusa. Tre cadono allineati, il quarto sopra di loro, l’ultimo di traverso: è un ragazzo giovane, l’unico vestito elegante e ha una scarpa ortopedica. Uno degli improvvisati becchini vorrebbe calarsi nella fossa per metterlo almeno in fila come gli altri. “Se vuoi rimanere lì dentro pure tu, fai pure”, gli urla il capo dei fascisti. La fossa viene fatta richiudere così, senza una benedizione, senza una croce o un altro segno di riconoscimento. I civili vengono rimandati nelle loro case. Chi ha potuto constatare che tra i morti non c’è il proprio marito o babbo o fratello rastrellato, va a ringraziare la Madonna del Poggiale per aver graziato il proprio congiunto.


I responsabili dell’eccidio in libertà e le vittime dimenticate
Diverse testimonianze degli anziani del luogo ricordano che la sera della fucilazione era quella del 2 agosto. La ricordano bene, quella data, perché il 2 agosto si celebrava la festa “dell’indulgenza” o del “perdono”: una usanza religiosa istituita ad Assisi per un episodio della vita di San Francesco e diffusa in molte parrocchie del centro Italia, Romagna compresa. Anche in un documento ufficiale dello stato maggiore tedesco è scritto che il 2 agosto “a seguito dell’uccisione di 5 camerati in un attentato in località Casale di Brisighella” sono stati “rastrellati e giustiziati 5 partigiani comunisti prelevati dal carcere di Forlì”. In un processo della Corte d’Assise Speciale di Ravenna che il 17 gennaio 1946 condannerà alcune centinaia di fascisti per i misfatti compiuti in diverse parti del territorio, si fa invece riferimento alla data del 5 agosto 1944 per l’eccidio di Casale. I sei fascisti accusati di aver presenziato alla fucilazione verranno condannati a pene piuttosto lievi e alla fine tutti amnistiati. Dei capi tedeschi che ordinarono quell’esecuzione non s’è mai saputo nulla. E mentre i responsabili l’hanno fatta franca, delle vittime si sono perse le tracce. Negli atti del processo di Ravenna i nomi di quei poveri martiri non ci sono. I registri del brefotrofio-carcere di Forlì non esistono, perché chi era portato lì non veniva registrato, e comunque i tedeschi prima di ritirarsi hanno bruciato tutto. Gli unici nomi sono riportati dal bibliotecario del Comune di Forlì, Antonio Mambelli, collaboratore del Resto del Carlino, che il 6 agosto 1944 scrive:


“I tedeschi catturano e fucilano in Casale di Fognano il maestro Gino Carnaccini di 25 anni forlivese, un Amilcare Piancaldini da Firenzuola ed altri due di cui ignorasi il nome: i 4 infelici sono sepolti in una fossa comune. Sembra che uno di essi sia Pasquale Comandino di Aristide di anni 17, da Cesena. La famiglia Carnaccini, disperata per la scomparsa del congiunto, invano si era recata alla federazione fascista; i tedeschi fucilano, inoltre, il partigiano Giuseppe Giacomoni da Longiano”.

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Solo due vittime su cinque hanno un nome
Ma solo di Gino Carnaccini e Amilcare Piancaldini si avrà in seguito conferma. Gli altri due risulteranno morti in luoghi e date diverse, e il quinto rimarrà ignoto. Vittime dimenticate di una strage dimenticata. Col passare degli anni, infatti, della strage di Casale si perde la memoria. Si ricorda che alcuni civili del luogo all’indomani dell’eccidio avevano messo un masso ai bordi della fossa comune dove il 2 agosto di ogni anno qualcuno portava dei fiori, mentre in chiesa il prete diceva messa. Poi i corpi vengono riesumati (ma tre di loro non si sa dove siano stati portati), il masso è rimosso, il luogo della fucilazione viene inglobato nel piazzale di un frantoio della ghiaia, le celebrazioni annuali sono interrotte. Nel 2000 un libro, “Arriverà quel giorno” (Pendragon) e la pubblicazione dell’Atlante delle stragi nazifasciste in Italia riporta alla luce quella strage dimenticata il Comune intitola finalmente una strada ai “Martiri di Casale”. Ma i nomi dei martiri ancora non ci sono.


La ricerca dell’Anpi per dare onore e dignità a quei giovani innocenti


L’Anpi di Brisighella, attraverso l’impegno tenace di due volontarie – Tiziana Montanari e Luciana Laghi – avvia una ricerca e riesce a ricostruire l’identità certa di due vittime: Gino Carnaccini e Amilcare Piancaldini. Rintraccia le famiglie delle vittime, ai figli e nipoti di quella strage dimenticata si apre un mondo di emozioni, ricordi e restituzione della dignità ai loro congiunti martiri.

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Gino Carnaccini, l’invalido che pensava di non avere nulla da temere
Il primo dei caduti riconosciuti aveva 25 anni ed era di Forlì. Era l’ultimo di 10 fratelli di una famiglia antifascista di città e l’unico figlio diplomato, come maestro. Il padre era operaio, caporeparto  di una fabbrica. Da bambino Gino aveva subìto un grave infortunio: un carro gli era passato sopra al piede destro amputandogli tutte le dita. Nel 1944 prestava servizio ausiliario civile a San Donà di Piave, come segretario nell’Annonaria che durante la guerra rilasciava le tessere per l’acquisto dei generi razionati. In quell’estate, con gli Alleati che lentamente avanzavano e i bombardamenti che bersagliavano Forlì, era tornato a casa e si era ricongiunto alla famiglia sfollata sui monti di Bertinoro. Ma Gino aspettava una lettera da una ragazza e il giorno dell’arresto era sceso in città assieme a un fratello per verificare alla Posta se era arrivata. Sul Ponte di Schiavonia i due incapparono in un rastrellamento del nazifascisti. “Vieni, scappiamo”, gli disse il fratello, che collaborava con la Resistenza. “Vai tu, io non ho niente da temere”, gli rispose Gino. Il fratello si allontanò, lui era tranquillo, non aveva fatto niente, non era schedato come “ribelle”, pensava che nulla gli sarebbe successo. Invece venne fermato, portato prima nel carcere della Rocca monumentale poi trasferito nell’ex brefotrofio di via Salinatore gestito dalle SS. Lì venne picchiato, forse torturato, pochi giorni dopo prelevato dai tedeschi assieme agli altri 4 sventurati e portato su un camion fino a Casale per essere fucilato. Due giorni dopo i tedeschi restituirono alla famiglia il suo portafogli con dentro 800 lire, la cintura e gli occhiali rotti. Il corpo venne successivamente riesumato e sepolto nel cimitero di Forli. Nessun cippo, nessun ricordo, nessuna commemorazione è mai stata fatta per quel povero giovane ucciso senza ragione.


Amilcare Piancaldini, per evitare la deportazione o la fucilazione andò a lavorare per la tedesca Todt
Amilcare Piancaldini di anni ne aveva 36. Originario di Firenzuola e residente a Prato, era in guerra e dopo l’8 settembre 1943 aveva deposto le armi ed era tornato a casa. La sua famiglia era sfollata alle Balze, sull’Appennino forlivese nella zona del Verghereto, dove viveva in casa di parenti. Aveva moglie e tre figli, di 3, 6 e 11 anni. Sull’Appennino era andato a lavorare per la Todt, la struttura paramilitare tedesca responsabile della logistica e delle infrastrutture per il Reich, che dopo l’8 settembre 1943 operò in Italia per realizzare le fortificazioni difensive dell’esercito germanico e in particolare della Linea Gotica. Siccome avevano bisogno di molta mano d’opera, i tedeschi garantivano ai militari italiani che dopo l’armistizio avevano disertato di non essere fucilati o deportati in Germania se accettavano di lavorare per la Todt. Piancaldini era andato, anche perché doveva mantenere una famiglia e lì prendeva una paga . Quando gli alleati stavano arrivando sull’Appennino forlivese, il capo cantiere disse a tutti di tornarsene a casa. Mentre rientrava, pare per la denuncia di una spia che lo segnalò come partigiano, venne arrestato, portato prima a Sarsina, torturato e quindi trasferito a Forli, dove poi seguì la stessa sorte di Gino Carnaccini. Fu poi probabilmente riconosciuto per il tesserino che tutti i lavoratori della Todt erano tenuti a portare con sé. Al momento della riesumazione del cadavere, la famiglia venne avvisata dal Comune di Brisighella, ma era così povera che non poté nemmeno permettersi di ritirare la salma per seppellirla a Prato. Così Amilcare fu tumulato nel cimitero di Casale, sotto una anonima croce di legno, e la tomba fu custodita per diversi anni dal diacono della parrocchia. Anche per lui nessun riconoscimento, nessuna cerimonia, solamente l’oblio.

Gli altri due nomi non sono quelli delle vittime di Casale ma di persone fucilate altrove
Oblio nel quale sono ancora le altre tre vittime dell’eccidio, di cui non si sa nulla. Gli altri due nomi riportati nel diario di Antonio Mambelli il 6 agosto 1944, infatti, non corrispondono a quelli dei caduti a Casale. Pasqualino Comandini (e non Comandino), cesenate di appena 17 anni, risulta ucciso dai tedeschi a Saiaccio di Bagno di Romagna, vicino al lago di Quarto, il 7 agosto 1944. Mentre Giuseppe Giacomoni, 24 anni di Longiano, lui sì partigiano della 29esima Brigata Gap operante nei monti del cesenate, risulta catturato durante un trasporto d’armi e fucilato a Savignano il 17 settembre 1944. Del quinto, l’ignoto, non si è mai saputo nulla.

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Dopo 73 anni un monumento ricorda la strage dimenticata
Il 5 agosto 2017, 73 anni dopo, Brisighella dedica un monumento ai “Martiri di Casale”. Un’artista, Mirta Carroli, che fa sculture in acciaio ed è conosciuta a livello internazionale, si è offerta di realizzare la stele: una struttura in acciaio alta due metri, con incisi i due nomi noti dei martiri e una poesia di Ungaretti. La stele è collocata nel piazzale della chiesa parrocchiale di Santo Stefano in Casale, poco distante dal luogo dell’eccidio. Alla cerimonia, con la messa in ricordo delle vittime celebrata dal vescovo della diocesi monsignor Mario Toso e l’inaugurazione del monumento, saranno presenti con i gonfaloni i Comuni di Brisighella, Forlì e Prato, le Anpi di quelle città, l’artista e i parenti dei martiri.

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