Enrico Berlinguer è tornato tra noi: il racconto di un sogno

Cento anni fa nasceva Enrico Berlinguer, amatissimo segretario del partito comunista italiano che se ne è andato troppo presto. Ma...

Enrico Berlinguer è tornato tra noi: il racconto di un sogno
Enrico Berlinguer
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

7 Giugno 2024 - 01.36


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Che i sogni siano strani è cosa risaputa. Ma quello che ha fatto ieri un mio amico strano lo è davvero. Me l’ha raccontato con le lacrime agli occhi, la voce rotta d’un ragazzo scosso nell’intimo, con nel cuore una gran vuoto, una dolce mestizia. Ecco quel che mi ha detto.

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Ho sognato che Berlinguer era tornato. Sì, tornato, in carne e ossa (più ossa che carne, com’era in effetti), e ancora conservo nelle oniriche orecchie la sua voce piana e decisa, i toni morbidi e risoluti, l’accento da sardo ostinato. Era smarrito, Enrico. Sconcertato. Si ritrovava in un mondo che non riconosceva, si guardava intorno con lo sguardo sperduto d’un bimbo. E come un bimbo m’interrogava, seduti alla frescura d’una palma che ci proteggeva da un sole accecante. Aveva una fame vorace della sua amata Italia, voleva sapere cos’era accaduto dopo la sua dipartita, anelava a colmare in un soffio un quarantennio di storia e di cronaca. Chi aveva preso il suo posto nel Partito? Aveva portato avanti le sue politiche, i suoi sogni, le sue battaglie o li aveva traditi? E gli operai, i lavoratori, gli sfruttati, i diseredati: c’era ancora qualcuno che si batteva per loro? E la P2? Quell’abominevole tumore era stato estirpato, le istituzioni erano state mondate da quelle scorie immonde? Che ne era di Craxi, dei socialisti, che quando lui fu afferrato dal male sul palco di Padova stavano trasformando il Paese in una Milano da bere, con il loro crasso disprezzo della morale e della giustizia sociale, con l’elevazione a sistema del taglieggiamento politico, la mostruosa voragine della spesa pubblica che festosamente creavano? E quelli dello scudo crociato? Tra una prece e un patto mafioso spadroneggiavano ancora anche loro? E Andreotti? Cossiga? Forlani? A loro non rimordeva la coscienza per l’omicidio di stato del loro compagno di partito? (Nel pronunciare il nome di Aldo Moro, a Enrico spuntò una lacrima rossa, sfavillante nel sole rovente, tanto che dovetti distogliere lo sguardo). E Licio Gelli era ancora libero di tessere le sue nere trame assassine con i fidi camerati della Cia? E le stragi che avevano devastato il Paese, s’erano smascherati i responsabili del fiume di sangue versato? E la questione morale, per cui tanto lui s’era battuto, tra sghignazzi e sberleffi di criminali pupazzi? Qualcuno aveva preso il testimone di quella battaglia?

Io tacevo. Tacevo per risparmiargli un dolore, che certo non meritava. Davanti al mio silenzio, lo sguardo fisso sul mio volto contorto dalla pena, Berlinguer m’incalzava: E l’Unione Sovietica? Pungeva ancora con i suoi aculei il Partito? Quel cialtrone di Reagan era stato rieletto? La sua politica omicida di deregulation era stata sconfitta? E la sua degna sodale, l’orrida Thatcher, continuava ad affamare i lavoratori della sua gloriosa nazione, aveva poi assassinato il welfare britannico che tanto lustro aveva dato alla sua patria? E l’Europa, aveva finalmente trovato una concordia d’intenti, un’unione di fatto e non soltanto di vuota retorica? Non c’erano più state guerre, nevvero? Lo Stato aveva sconfitto la mafia, la camorra, la ’ndrangheta, la sacra corona unita e tutto il crimine organizzato? Le morti sul lavoro erano cessate, o almeno drasticamente diminuite? Gli italiani avevano appreso il rispetto dell’altro, del diverso, del disperato? Avevano cancellato il razzismo? E le donne? Emancipazione, parità, rispetto, erano fatto concreti?

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Io continuavo a tacere. Sempre per risparmiargli un dolore. Davanti al mio silenzio, infine mi scosse con l’accorata domanda: Dimmi almeno, ti prego, cosa ne è del mio Partito, a cui mi sono immolato, dando financo la vita. A quelle parole non seppi resistere, e un pianto dirotto mi colse. Inutile fingere, inutile mentire: tutto gli rivelai, in un torrente di parole. Gli dissi che il partito era morto, morti i suoi ideali. Gli dissi che coloro che si spacciavano per suoi eredi lui li avrebbe scomunicati. Gli dissi che l’abisso socialista aveva prodotto abissi ancor più mostruosi. Gli dissi che alle bombe nere, al piombo rosso era subentrato il tritolo mafioso, col quale l’Italia aveva stretto patti ripugnanti. Gli dissi che il Paese e i suoi beni erano stati svenduti ad immondi oligopoli, che nuove e mostruose incarnazioni del Capitale avevano azzerato il concetto stesso di lotta. Gli dissi che un sinistro imprenditore aveva finito di ridurre in macerie quel poco che rimaneva. Gli dissi che irritanti ectoplasmi sedevano in Parlamento, ridicoli burattini si muovevano nelle stanze dei bottoni svuotati d’ogni potere. Questo gli dissi, in un pianto dirotto, ed altro ancora.

Quando tacqui, esausto e colmo di vergogna, Berlinguer mi prese la mano e come salmodiando mi disse: “Sono stato un uomo del mio tempo, e nel mio tempo ho ingaggiato battaglie e rischiato la vita per un ideale supremo, di giustizia sociale, di solidarietà, di fratellanza, di libertà, di legalità, di ragione, di conoscenza, di pace, di democrazia. Di tutto ho fatto nella mia vita: mi sognai filosofo, fui tradotto in galera per aver chiesto il pane, volli spegnere violenze e vendette contro l’orrido fascio, diressi una scuola, sopravvissi a un attentato, tenni per anni con salda mano la barra del maggior partito di sinistra dell’emisfero d’occidente, ne affermai l’autonomia da ingerenze straniere, tracciai novelle politiche per allentare la nera morsa d’acciaio che stritolava il mio Paese, mai rinnegai la madre di tutte le battaglie, la lotta di classe, divenni mio malgrado un’icona, il simbolo di un sogno da realizzare, l’astro mai spento di un ideale immortale.

Di tutto ho visto nella mia vita: la bestialità fascista, una guerra mondiale, una Costituzione tarpata, una sovranità limitata, lo slancio feroce d’una ricostruzione, un’esplosione economica incontrollata. Ho visto sistemi crollare, altri risorgere, vecchi e nuovi fascisti ritessere le loro trame nefande, il Capitale ingrossarsi e ingozzarsi mai sazio del midollo degli onesti, un’intera generazione sollevarsi come un’onda gigante che tutto voleva distruggere, poi adagiarsi nel conformismo più becero. Ho visto colpi di stato e di mano, rose dei venti, piani eversivi e colonnelli traditori, servizi segreti appestati e politici venduti allo straniero. Ho visto strade piazze treni stazioni sventrate e insanguinate dal tritolo e dal piombo. Soprattutto, ho visto la lenta morte dei valori per cui mi sono battuto per l’intera vita che mi è stata concessa. Avrò fatto poco, non quanto avrei voluto, ma non ho vacillato, giammai sono venuto meno all’ideale che mi guidava, dignitoso e sincero, pulito e ostinato, pur condannato dai miei stessi compagni ad una mortale solitudine.

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Questa terra ho lasciato senza rimpianto, ma adesso, edotto di quel che è accaduto dopo la mia dipartita, di ciò che ne è stato del mio amato Paese, mi sento di nuovo morire. Neanche più uomini e donne mi sembrate, voialtri, ma diafane ombre di ombre, merci e prodotti di un finto progresso che vi ha divorato. Tu mi guardi smarrito, vorresti una guida, che ti prendessi per mano e ti indicassi la via. Ma ormai nulla io posso, se non ricordarti con il mio esempio che l’unica verità è la lotta solidale e tenace contro la menzogna, contro l’ingiustizia, contro la disuguaglianza, contro la tirannide mascherata da una falsa libertà. Questo io solo posso dirti. Addio, compagno”.

Mi sono destato, ho allungato una mano nel buio: Berlinguer era sparito. Eppure, mi dico e ti dico, è come se qualcosa di lui ancora aleggiasse, come se dopo cent’anni fosse davvero rinato, infondendomi la forza di sperare e di credere che questo mio sogno un giorno diverrà realtà – che la battaglia continui.

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