Fra i risultati più sorprendenti della missione spaziale Kepler della NASA, uno è senz’altro la scoperta di numerosi sistemi planetari multipli e compatti, ovvero sistemi costituiti da tre o più pianeti con raggi compresi fra 0.3 e 4 volte quello della Terra, orbite di breve periodo, da 1 a 100 giorni, e quindi distanze dalla stella madre fino a 100 volte più piccole della distanza Terra-Sole. In questi sistemi, le inclinazioni relative fra le orbite dei pianeti sono inferiori a qualche grado, perfino più piccole di quelle dei pianeti del Sistema solare; si parla pertanto di sistemi “piatti”. Per gli scienziati che studiano i processi di formazione planetaria è un bel grattacapo spiegare perché esistano sistemi planetari simili.
I pianeti più interni (cioè più vicini alla stella) dei sistemi planetari multipli sono stati ribattezzati “Vulcan planets”, ovvero Pianeti Vulcano, da Sourav Chatterje e Jonathan Tan, astrofisici rispettivamente della Northwestern University e della Università della Florida, nel loro lavoro in pubblicazione sulla rivista The Astrophysical Journal. Il nome deriva da Vulcano, il corpo celeste che il matematico Urbain Le Verrier ipotizzò essere presente in un’orbita più interna di quella di Mercurio e, tuttavia, mai trovato.
L’anno scorso i due astrofisici hanno proposto un nuovo meccanismo di formazione di pianeti in sistemi multipli e compatti. Contrariamente alle teorie standard secondo cui tali pianeti si formano in regioni periferiche per poi migrare verso la stella, essi ritengono che tali pianeti possano formarsi dove li vediamo adesso, “in situ”, da un anello di ciottoli cosmici provenienti da regioni più lontane e che spiraleggiavano nel disco protoplanetario di polveri e gas. Se questo è il vero meccanismo che ha prodotto i corpi celesti, Chatterje e Tan predicono una relazione tra la massa dei pianeti Vulcano e la loro distanza dalla stella: tanto più grande è il raggio dell’orbita, tanto maggiore deve essere la loro massa. Essi affermano inoltre di trovare alcune conferme della loro teoria dalla distribuzione dei raggi dei pianeti Kepler, ipotizzando certe relazioni fra la massa e il raggio planetari.
«Questo scenario di formazione è certamente interessante perché permetterebbe di spiegare l’esistenza dei sistemi planetari compatti scoperti da Kepler in modo più semplice delle teorie di migrazione planetaria» commenta Aldo Bonomo, dell’INAF-Osservatorio Astrofisico di Torino. «Tuttavia, esso ha bisogno di essere corroborato dalle osservazioni. Ad esempio, l’ipotizzata relazione massa-distanza dei pianeti più interni potrà essere verificata man mano che riusciremo ad aumentare le misure della massa e quindi della densità dei pianeti Kepler di piccola taglia, grazie anche a spettrografi ad alta risoluzione e precisione come HARPS-N al Telescopio Nazionale Galileo. Tali misure, pertanto, non ci permettono solo di studiare la struttura interna degli esopianeti di piccola dimensione, come le Terre, superTerre e i pianeti nettuniani, ma anche di comprendere la loro formazione».