Remuzzi: "Astrazeneca è arci-sicuro. Ad eccezione, forse, delle donne fra i 20 e i 50 anni”

Il direttore dell’Istituto Mario Negri: "Quando si vaccinano milioni di persone, chi si ammala in quel periodo tende a dare la colpa al vaccino"

Giuseppe Remuzzi
Giuseppe Remuzzi
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13 Aprile 2021 - 19.38


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Remuzzi, lei si è vaccinato con Astrazeneca quattro giorni fa.  Era spaventato? Non abbiamo nessuna evidenza che Astrazeneca sia un vaccino meno sicuro – sentenzia il Direttore dell’Istituto Mario Negri rispondendo all’Agenzia SprayNews -. Tutte le complicazioni che ci sono state, tranne una piccola e rarissima, sono uguali o addirittura inferiori a quelle di una popolazione normale, non vaccinata. Naturalmente, quando si vaccinano milioni di persone, chi si ammala in quel periodo tende a dare la colpa al vaccino. Tutti gli studi che sono stati fatti, e sono molto accurati, dimostrano che le cose non stanno assolutamente così. Tornando nello specifico ad Astrazeneca, premesso che gli effetti degli altri vaccini li conosciamo molto di meno, c’è da dar conto di una complicazione rarissima, una trombosi delle vene cerebrali o delle vene mesenteriche, che colpisce soprattutto le giovani donne in età fertile ed è stata identificata per la prima volta in Germania. E’ una malattia nuova. Assomiglia alla trombocitopedia indotta dall’eparina. Capita, però, rarissimamente. Parliamo di poche decine di persone su decine di milioni di vaccinati. Una probabilità molto remota, ma è giusto parlarne, è giusto che la gente sappia che abbiamo già capito quasi tutto di questa complicazione, che la sappiamo diagnosticare e la sappiamo curare. La cura sono le immunoglobuline ad alte dosi come si usa per il rigetto del trapianto. Astrazeneca è un vaccino assolutamente sicuro, con una complicazione rarissima che, però, suggerisce di non somministrarlo alle donne della fascia di età compresa fra i venti e i cinquanta anni. Qualcuno sospetta che ci possa essere un rapporto di concausa con i contraccettivi orali, ma al momento è solo un ipotesi da verificare.  

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L’Istituto Mario Negri ha pubblicato, se non sbaglio, uno studio su un protocollo di cura a domicilio, che scatta già dai primissimi sintomi del Covid. Le chiedo in cosa consiste e se sia davvero risolutiva?

Abbiamo inizialmente pubblicato su un giornale in inglese una sorta di promemoria di come noi curiamo i pazienti. Successivamente abbiamo fatto uno studio controllato sulla base dell’esperienza dei medici che da tempo lavorano con noi. Parliamo di pazienti che sono stati curati a partire dai primi sintomi senza aspettare il tampone. L’idea in un certo senso nuova è proprio quella di non aspettare evitando di perdere quegli otto o dieci giorni che sono quelli cruciali, in cui il virus si moltiplica. La cura è quella che si pratica normalmente per le infezioni delle alte vie respiratorie di qualunque tipo, virali e non. Si somministrano degli infiammatori per evitare che la malattia progredisca verso una stadio di iper infiammazione che comporta tutte le conseguenze. Il virus si moltiplica nei primi otto/dieci giorni. Se noi perdiamo il tempo prezioso di quella  prima settimana abbondante, il virus si diffonde dappertutto e in tutti gli organi. Come farmaci antinfiammatori noi utilizziamo celecoxib e nimesulide. Per chi ha qualche ragione per non assumere questi due farmaci, li sostituiamo con l’aspirina. Dopo dieci giorni, se il malato sta meglio continuiamo così. Altrimenti, facciamo degli esami di laboratorio e, se gli indici della coagulazione sono saliti, passiamo al cortisone, all’ossigeno se ce n’è bisogno e all’eparina. In questo modo abbiamo ridotto l’ospedalizzazione dei malati sintomatici del novanta per cento. Ci sono molte altre terapie che, se somministrate precocemente, probabilmente funzionano, a partire dai dagli anticorpi monoclonali, che hanno, però, il difetto di costare molto e di richiedere, almeno allo stato attuale, l’ospedalizzazione perché richiedono un’endovena. Il nostro protocollo deve ancora ricevere tutti gli imprinting ufficiali, ma i dati erano talmente incoraggianti da farci decidere di renderli noti subito. Senza aspettare.

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Si parla di nuove e generose aperture. Per lei sarebbero avventate? Quando pensa che potremmo ragionevolmente uscire, più o meno definitivamente, dall’incubo chiamato Covid?

Definitivamente nel 2024, ma già alla fine di quest’anno la situazione sarà considerevolmente migliorata, anche perché avremo nel frattempo vaccinato una parte consistente della popolazione. Il virus continuerà a essere fra noi, ma sarà pericoloso come gli altri coronavirus, compresi quelli del raffreddore.

E le misure prossime future?

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Se i dati delle vaccinazioni effettuate continueranno, magari in modo più rapido, a salire e quelli dei ricoveri e delle terapie intensive a scendere, come sta costantemente accadendo in questi ultimi giorni, sarà possibile prendere in considerazione alcune aperture. I livelli di attenzione e di precauzione non dovranno, però, essere abbassati. Teniamo tutti presente che i lockdown, più o meno rigidi, si rendono necessari solo perché non tutti i cittadini rispettano spontaneamente gli obblighi loro imposti. Se tutti avessero sempre indossato le mascherine e mantenuto il distanziamento sociale, non ci sarebbe stato nessun bisogno di altre e più pesanti misure restrittive.

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