Il dermatologo infettivologo Aldo Morrone, direttore scientifico dell’Irccs San Gallicano di Roma ha spiegato che la pandemia non finirà tanto presto e con il covid dovremo abituarci a convivere per anni: otto, forse dieci, forse di più.
Ha poi sottolineato: “Per il coronavirus i vaccini non danno immunità definitiva come accade per il morbillo: il vaccino serve a limitare la diffusione e una riproduzione del virus che generi varianti pericolosissime. Già oggi – ha spiegato – stiamo cominciando a pensare alla vaccinazione per i prossimi anni, alla terza somministrazione, o alla seconda per vaccini come Johnson&Johnson. Stiamo pensando che questo virus diventi endemico quindi ci possa essere poi la possibilità di vaccinare soprattutto le persone più a rischio come si faceva per l’influenza”. Insomma, “dovremo imparare a convivere con il virus e ovviamente mantenere alcune forme di attenzione come il distanziamento o le mascherine”. Ma c’è molto di più: “Sarà necessario – ha avvertito il professore – cominciare a ripensare la struttura delle scuole, la struttura degli ospedali, delle fabbriche e delle industrie che dovranno essere fatte in modo tale da evitare il rischio di una diffusione e di avere poi dei focolai in alcuni luoghi o in alcun Paesi”.
“L’immunità di gregge è un mito molto bello, man mano però che la vita reale scorre l’obiettivo si allontana. L’immunità maggiore, di comunità, più ampia possibile, è fondamentale in questo momento soprattutto per il tentativo di contrastare la diffusione del virus, quindi la sua replicazione e le varianti – ha aggiunto Morrone – abbiamo il grande vantaggio che le varianti attuali ancora non sfuggano all’efficacia dei vaccini, hanno un’efficacia diversificata ma non sfuggono. Il rischio è che se noi non contrastiamo la diffusione del virus possano nascere varianti contro le quali i vaccini siano inefficaci”.
Sul lungo periodo, però, la situazione andrà affrontata nel suo complesso con un cambio di passo e soprattutto di mentalità: “Il Covid in realtà ha travolto e stravolto il pianeta, e molti studi che si stanno facendo per combatterlo serviranno anche per altre malattie. Ma – ha avvertito – questa esperienza deve farci cambiare atteggiamento. Perché l’idea di un luogo Covid-free non esisterà mai finché ci sarà una sola persona a rischio di contagiare gli altri”. Di qui l’importanza di agire a livello planetario.
“Non possiamo pensare di lasciare indietro le popolazioni dei Paesi più poveri”, ha sottolineato facendo l’esempio “del sogno di Sant’Agostino di svuotare il mare con un secchiello: è la stessa logica – ha spiegato – è assolutamente tempo perso, perché mentre 100 anni fa il mondo non era così interconnesso come oggi e potevi pensare di contrastare una epidemia intervenendo solo sul nord del mondo, oggi è impossibile. C’è una tale interconnessione, una rapidità di spostamento, ma non soltanto di esseri umani, anche di animali, piante, merci…tanto che se non si investe su tutto il pianeta, qualunque azione è tempo perso. Inoltre, il tema drammatico dei Paesi poveri o in via di Sviluppo, è la distribuzione della somministrazione: se io non ho strade, non ho operatori sanitari, non ho centri che provvedano alla somministrazione, anche se riuscissi a produrre il vaccino, sarebbe inefficace. Invece oltre ad avere una grossa produzione, devo riuscire a investire anche sulla somministrazione, soprattutto nelle aree rurali, nelle zone di guerra dove maggiormente si diffondono tutte le malattie infettive”.
Come fare? “Noi in Italia abbiamo l’immagine del Piano Marshall. Bisognerebbe intervenire con una grande immensa opera globale. In questo momento il vaccino sta avendo un ruolo di pronto soccorso. Un ruolo che in futuro, però, non potrà essere affidato al vaccino ma a un ripensamento generale delle condizioni sociosanitarie, educative, scolastiche, economiche e sociali di numerosi Paesi”.
Il covid, ha sottolineato il professore, ci ha insegnato molto: “Finalmente abbiamo capito che non possiamo lasciare Paesi in condizioni di povertà estrema pensando che le infezioni rimangano lì, come è stato con l’Ebola. Oggi abbiamo visto che non è così: le infezioni attraversano interi continenti, quindi anche questo virus attraversa continenti e oceani”. Ci vorranno anni? “Nella mia opinione sì. Lo stesso Recovery Plan – ha osservato – non può essere soltanto rimettere insieme i cocci di un servizio sanitario che tutto sommato, pur zoppicando, funzionava, ma rilanciare un servizio sanitario che non si limiti alla prevenzione ma si occupi di produzione di salute. Se si vuole produrre salute è necessario intervenire anche in altri ambiti: la scuola, l’economia, il lavoro, la casa, l’alimentazione. È un progetto a mio parere molto più ambizioso. Mi dispiace che di questo ambito del Recovery plan, della salute, si discuta poco o niente. Io avrei lanciato la discussione nelle fabbriche, nelle scuole, nelle Università, nei giornali, in tv. Avrei lanciato un grande dibattito nazionale su come migliorare la vita alla luce della tragedia del covid”.
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