“Mio padre gestiva un bar a Perugia, che era anche la sede di un Milan club e io stravedevo per Gianni Rivera. La prima partita, che ho visto dal vivo, è stata un Bologna-Milan del 1966”.
Giancarlo Antognoni rossonero alla nascita e viola per destino, racconta, in un’intervista ad Antonello Sette pubblicata in anteprima sull’inserto sportivo del Foglio, una storia, dove il protagonista conquista il successo e la gloria, ma non taglia mai il traguardo della pace.
“Poi, come accade nella favole cavalleresche, mi hanno messo addosso una maglia, che aveva un colore diverso da quella del Milan. Il viola mi è entrato nell’anima e ci è rimasto per sempre. La prima volta in serie A avevo diciotto anni. Tre giorni prima Nils Liedholm, che all’epoca allenava la Fiorentina, mi aveva detto che a Verona sarebbe toccato a me. L’esordio nel campionato, che più conta per gli italiani, non solo non si scorda mai, ma è per sempre come se fosse accaduto ieri. Ricordo tutto: l’apprensione di una vigilia infinita e la partita, dove riuscii nell’impresa di non avere paura. Era l’otto il numero di quella mia prima indimenticabile maglia”.
A portarla alla Fiorentina fu il presidente Ugolino Ugolini quasi omonimo del conte Ugolino, forse il personaggio più famoso dell’inferno dantesco…
“Sì è stato lui a portare a Firenze, a distanza di un anno, prima il compianto barone e poi me. Io arrivavo dall’Asti, che militava in serie D. A quindici anni aveva fatto un provino con Il Torino che, dopo svariati tira e molla, aveva deciso di trattenermi, ma io scelsi Firenze, anche per riavvicinarmi a Perugia e alla mia famiglia. Era andato via di casa a quindici anni e la nostalgia era sempre più forte”.
Lei della Fiorentina è stato il capitano e una bandiera che non mai tradito. Ne è orgoglioso?
“A distanza di tanti anni, ogni giorno qualcuno si complimenta con me per quella scelta. Purtroppo con la Fiorentina ho vinto troppo poco, ma l’affetto di un’intera città non mi ha mai abbandonato. Poche vittorie sul campo, ma una, forse, più grande, al di fuori. La gratitudine nella vita è importante. Ti torna indietro, solo se sei entrato nel cuore della gente. L’acquisisci negli anni, non la puoi comprare una volta per tutte”.
Ha mai ricevuto proposte da altre squadre, che ha restituito al mittente?
“Durante i miei anni d’oro mi hanno cercato insistentemente prima la Juventus nel settantotto e poi la Roma nell’ottanta. Ricordo che, dopo i mondiali in Argentina, la Juve mi voleva a tutti i costi. Alla fine, però, non se ne fece niente. Quanto alla Roma, andai direttamente da Dino Viola, ma rifiutai la sua offerta, anche perché a Firenze era appena diventato presidente Ranieri Pontello, che per la Fiorentina rappresentava un salto di qualità e aveva portato in città un nuovo entusiasmo”.
Quale è stato il giorno più bello della sua vita sportiva?
“I giorni più belli sono gli esordi. Con la Fiorentina e con la Nazionale. Le prime volte sono un brivido, che ti scuote e non ti lascia più. Indimenticabili sono anche i giorni dei rientri, dopo gli incidente più gravi”.
E quale è il giorno che non avrebbe mai voluto vivere?
“Sicuramente quelli segnati dagli scontri di gioco, con il portiere del Genoa Silvano Martina nel 1981 e, tre anni dopo, con il difensore della Sampdoria Luca Pellegrini. Gli scontri fanno parte del calcio, ma così violenti proprio a me dovevano capitare?”.
Lo scrittore argentino Osvaldo Soriano ha scritto un libro che ha un bellissimo titolo “Triste, solitario y final”. Sembra l’immagine della sua vita. La vita di un fuoriclasse del pallone, bello ed elegante, con una falcata splendidamente simile a quella del mezzofondista italo-sudafricano Marcello Fiasconaro, che passava, nello spazio effimero di un pomeriggio, dalla ribalta accecante a un letto di ospedale. Con quella immagine terribile di una testa rotta e e di un cuore, che si ferma, dopo lo scontro con Martina. Da allora noi, che l’amavamo senza distinguere il campione dalla persona, abbiamo letto un velo di malinconia sul suo volto.
“Sì, il titolo di quel libro di Soriano in qualche modo mi descrive. Mi rivedo nella solitudine, non nella malinconia. La malinconia è uno stato e un malessere che, prima o poi, nella vita avvertono tutti. E’ l’inevitabile contraltare della gioia. E’ capitato spesso anche a me di essere malinconico, ma non credo sia un mio tratto distintivo”.
Che rimpianti ha Giancarlo Antognoni?
“Di aver vinto quasi nulla con la Fiorentina, di non aver giocato la Champions League e la finale dei mondiali dell’ottantadue”.
Già, quel maledetto infortunio al collo del piede destro, rimediato nella semifinale contro la Polonia…
“Altri rimpianti non li ho, perché ho fatto il mestiere più bello del mondo”.
Ha dimenticato il gol del 4 a 2, che le annullarono contro il Brasile. Se l’avessero concesso, non ci sarebbe stata la parata miracolosa di Dino Zoff, che preservò la vittoria e divenne, poi, leggenda…
“Quel gol fu annullato perché il guardalinee sbandierò un fuorigioco che non c’era. Con il Var non sarebbe finita 3 a 2 e non avremmo sofferto sino all’ultimo secondo”.
Ha anche dimenticato, caro Antognoni, il campionato perso in quello stesso anno all’ultima giornata dalla Fiorentina e vinto parallelamente dalla Juventus. Che ricordo ha di quel giorno?
“Fu un giorno tristissimo per tutti noi fiorentini. Abbiamo accusato la pressione di un sogno troppo grande. A Cagliari non abbiamo giocato come potevamo e dovevamo. Peraltro. ci annullarono un gol che era buono”.
Mentre alla Juventus concessero, se non ricordo male, un rigore generoso…
“Lasciamo stare”.
Ok, ho capito e non insisto. Ai mondiali del 1982 era obiettivamente più forte l’Italia o il Brasile?
“Sulla carta, come organico, sicuramente il Brasile, ma noi eravamo più squadra. Loro erano un insieme di straordinari campioni, ma non si muovevano all’unisono, come si muove una squadra. Noi, invece, sì e abbiamo vinto. Anche l’Argentina, quando hanno annunciato la formazione, era manifestamente più grande di noi. Poi, però, iniziano le partite…”.
Le piace il calcio di oggi?
“Mi piaceva più quello di ieri. Ogni dieci anni cambia tutto: calciatori, allenatori, moduli e schemi. Si ricomincia sempre daccapo”.
Perché era più bello il calcio in cui lei giocava?
“Non c’erano i falli tattici e i movimenti rigidamente prestabiliti. C’erano più improvvisazione, più gioia e più fantasia. C’erano giocatori che erano liberi di fare quello che volevano. Oggi sono tutti imprigionati dentro il modulo, loro imposto dall’allenatore sin dall’inizio della preparazione. Gli artisti del pallone hanno bisogno di libertà per dare lo spettacolo che vorremmo sempre vedere. Non è un caso che i numeri dieci non esistano più. Un tempo i giocatori fantasiosi come Platini, Figo, Maradona facevano la differenza. Oggi no. Oggi conta più il collettivo del singolo”.
Sandro Mazzola mi ha detto che lui si sentiva più forte di Rivera. Lei era più forte di Baggio?
“Siamo giocatori diversi. Lui era micidiale negli ultimi venti metri. Io agivo in una zona di campo molto più ampia. Lanciavo, tiravo da fuori e Baggio nel tiro da fuori non era un granché. Faceva i pallonetti e per segnare arrivava a dribblare sette, otto avversari”.
Quale è stato il giocatore più forte della sua epoca?
“Diego Armando Maradona. Solo e sempre Maradona. Da lì non si scappa”. Perché è andato via dalla Fiorentina? “Perché i matrimoni si fanno in due. Sono stato costretto al divorzio dalla società, ma il mio matrimonio con la città e con i tifosi è inattaccabile. Io resterò viola per sempre e dalla Fiorentina non mi separerò mai”.
Ha ancora un sogno che vorrebbe esaudire? Che cosa vorrebbe fare da grande Giancarlo Antognoni?
“Ho già fatto tutto quel che potevo fare. Mi manca di vincere qualcosa. Ma ormai che posso vincere? Solo la salute e, questa ancora sì, la nazionale. Un po’ di azzurro non mi farebbe male”.