Pietro Paolo Mennea, classe 1952 e mancato nel 2013, è e resterà ancora nei cuori e nella mente di coloro che hanno condiviso con lui l’adrenalina di quei pochi secondi, qualcosa meno di venti, in cui bruciava i 200 metri che hanno fatto di lui una leggenda.
Il suo record europeo di 19”72 resiste ancora, a distanza di 44 anni, insieme a quello di unico duecentista della storia ad aver partecipato a quattro finali olimpiche consecutive dal 1972 al 1984 e vincendo quella di Mosca del 1980.
Si racconta che a 15 anni, in un vialone di Barletta, sfidò, a piedi, sui 50 metri, una Porsche e un’Alfa Romeo 1750, battendole entrambe e vincendo la scommessa di 500 lire per pagarsi un biglietto d’ingresso al cinema. Forse è solo un aneddoto, ma fa capire quanto l’uomo Mennea sia stato determinato sin dall’adolescenza e che la parola impossibile non facesse parte del suo vocabolario. Una dote dovuta alla sua incrollabile forza di volontà, maturata grazie alla sua umile ma sana famiglia come anche al suo territorio, la Barletta di quel Sud che sembrava avergli affidato la missione di un riscatto sociale.
Infatti, dopo che l’insegnante di ginnastica a Ragioneria l’aveva avviato ai 60 metri, iniziò a credere fermamente nei suoi mezzi, nonostante la sua struttura fisica fosse fuori dai soliti canoni dei mostri sacri della velocità. All’inizio dei ’70, fra sconfitte e improvvise miracolose vittorie, il gracile ma agile Mennea era già acclamato come “Freccia del Sud” e rappresentava plasticamente la materializzazione del sogno del riscatto del classico ragazzo del meridione.
Per tutti gli italiani, invece, che si lasciavano alle spalle il bollente Sessantotto, era l’esempio concreto di come ognuno avesse la possibilità di emergere e farsi valere proprio come accadeva nei romanzi e nei film americani che stavano egemonizzando la nostra cultura del dopo boom economico.
Grazie a lui l’Italia non era solo calcio ma anche velocità, una specialità sportiva quasi sconosciuta fino ad allora. Quando usciva dall’ultima curva, ingobbito dalla fatica, e con la rabbia disegnata negli occhi enormi e infossati in quella testa alta e sfidante che arrivava prima sul filo di lana, alzava il dito al cielo. Nel gesto si leggeva un monito al sistema sportivo che non mancava di criticare apertamente. Carattere non facile, uomo controvento si diceva, non si è prestato al divismo e mai supino al movimento istituzionale sportivo che aveva difficoltà a contenerne la vis polemica.
Fra diversi ritiri e altrettanti ritorni in pista si è dedicato con energia e profitto anche allo studio. Un diploma Isef e una laurea in scienze politiche ottenute prima dell’ultimo ritiro dall’attività avvenuta durante le olimpiadi di Seul del 1988, sono state seguite da una laurea in Giurisprudenza, una in Scienze motorie e sportive e dall’ultima, nel 2003, in Lettere.
Frenetica, come in pista, la sua attività successiva. Commercialista, avvocato, giornalista, procuratore di calciatori, ha insegnato management sportivo alla Luiss. È passato da Direttore Generale della Salernitana Calcio nella stagione 1998/99 a deputato europeo per la legislazione 1999-2004 con la lista “I democratici” di Romano Prodi e Arturo Parisi, lanciandosi successivamente e senza successo stavolta, in altre differenti esperienze politiche.
Ci ha lasciato più di venti pubblicazioni, molte sul mondo dello sport, ma la cosa più importante è quella alla quale dette vita nel 2006 insieme alla moglie Manuela Oliveri, anche lei giornalista e avvocato. La “Fondazione Pietro Mennea”, una onlus filantropica che oltre agli obiettivi di donazioni e di assistenza sociale ad enti caritatevoli, ha quelli di ricerca medico-scientifica attraverso progetti specifici con promozione alla lotta contro il doping.
Pietro Paolo Mennea morì in una clinica romana, non ancora sessantunenne, il primo giorno di primavera del 2013 per un fulminante tumore al pancreas.