di Rock Reynolds
Molti anni fa, commentando il clamoroso trasferimento del “pibe de oro” al Napoli, l’allora presidente del Barcellona disse a una delegazione italiana nel corso di un pranzo di lavoro: «Maradona como futbolista es un fenómeno, pero come persona es una mierda». Non credo serva far ricorso all’intelligenza artificiale per farsi un’idea di cosa intendesse il presidente del Barça e, soprattutto, per arguire che il fuoriclasse argentino non gli stesse particolarmente simpatico. Certo, Diego, nato e cresciuto in una famiglia povera e in un quartiere difficile di Buenos Aires, aveva una personalità sopra le righe, ma credo che nessuno possa negare che il dono che madre natura gli aveva dato non fosse unicamente in quel piede sinistro fatato e neppure nella famosa “mano de Dios” che restituì all’Inghilterra, anche se solo sul piano calcistico, l’umiliazione cocente patita dall’Argentina nella disfatta militare delle Falkland/Malvinas, consumatasi solo quattro anni prima.
Difficile pensare che un supercampione sportivo, uno di quelli che lasciano una traccia indelebile nella storia, non sia stato baciato da un talento ben oltre i confini dell’atletismo. Di supercampioni poco intelligenti nel calcio, ma probabilmente in qualsiasi sport, non se ne annoverano. Pelé, che con Maradona condivide tuttora la palma di più grande calciatore di sempre, non era certo uno sprovveduto. Muhammad Alì è stato un capopopolo. Michael Jordan disponeva di un’intelligenza che sarebbe impossibile confinare all’ambito cestistico. Ma, senza scomodare i più grandi di sempre in assoluto, basterebbe pensare a calciatori come Franz Beckenbauer, Johan Cruyff, Marco Van Basten, Roberto Baggio e Cristiano Ronaldo e Messi per capire che, per imporsi in una disciplina sportiva, serve qualcosa in più. Per intenderci, poco prima dell’incontro amichevole Francia-Germania di sabato scorso, a un giornalista che gli chiedeva se il probabile trasferimento al Real Madrid gli stesse facendo dormire sonni tranquilli, Mbappé ha risposto con aplomb einsteiniano: «Ho l’aria di essere molto preoccupato?».
Ecco spiegato il fascino che ancor oggi suscitano le biografie dei grandi atleti. Oltre all’interesse evidente per la ricostruzione del loro percorso sportivo, c’è l’intrigo rappresentato dalla loro personalità, dalle loro origini individuali e sociali. Dunque, ci sono biografie (sempre più rare, per fortuna) che si limitano a una mera elencazione delle imprese del campione, biografie che si trasformano in celebrazioni e altre che assumono i tratti della critica feroce se non del vero e proprio processo di piazza e, per finire, ci sono biografie che, tracciando la parabola umana e sportiva di un campione, si soffermano soprattutto sulla sua psicologia.
Alex Del Piero, il primo della classe (66THAND2ND, pagg 219, euro 18) di Patrizio Ruviglioni appartiene a quest’ultima categoria ed è un chiaro atto d’amore verso uno dei calciatori italiani più amati di sempre. Da bandiera della Juventus, naturalmente, Del Piero ha in sé elementi estremamente divisivi, ma la sua genialità e il suo stile sobrio hanno saputo travalicare i confini del tifo persino dopo momenti sportivamente e umanamente cupi, come quando, nella finale del maledetto Campionato Europeo del 2000, Alex si mangiò letteralmente due gol che avrebbero fatto finire la coppa nel ricco palmares dell’Italia. Sappiamo, invece, come andò: il pareggio in extremis della Francia con Wiltord al 94° e il golden goal di David Trezeguet (poi diventato compagno di squadra di Del Piero nella Juve e suo buon amico) al 9° del primo supplementare. Se, con le tue gesta sportive e il tuo garbo, riesci a riconnetterti con un popolo di commissari tecnici quale quello italiano, significa che dentro hai davvero qualcosa di importante.
E in Alex Del Piero il DNA del fuoriclasse si è mostrato fin da giovanissimo, trovando una precoce concretizzazione nel Padova, squadra con cui esordì da professionista nel 1992, a 18 anni. Nel Padova si trovò a giocare insieme ad Angelo Di Livio, di otto anni più vecchio, con cui avrebbe condiviso un’importante fetta di carriera alla Juventus e in nazionale. Di Livio non ha dubbi: «Avevo già capito che era un predestinato, a Padova era chiaro a tutti».
In Alex Del Piero, il primo della classe c’è l’intera sua parabola sportiva, caratterizzata da molti alti e da qualche basso profondo, anche se, a ben guardare, il carattere schivo e riflessivo di questo campione si è sempre mantenuto in bilico tra una sfuggente simpatia personale e una palpabile vena malinconica, quasi che la sua incapacità di dimostrare a tutti quella grandezza indiscutibile che rende un campione ciò che è fosse un’ossessione debordante nella depressione. Pare proprio questo l’obiettivo di Ruviglioni: scavare in quell’anima elusiva, cogliere i germi di quel demone fosco con cui i grandi prima o poi devono confrontarsi. Come dimenticarsi del pallonetto in spaccata che nel 1994 sancì il 3-2 finale in rimonta contro l’odiata (calcisticamente parlando) Fiorentina? Toldo si sta chiedendo ancor oggi da quale pianeta fosse sceso quel pallone. E come scordarsi del primo “gol alla Del Piero”, un tiro a giro scoccato contro il fortissimo Borussia Dortmund, in Champions League? La vittoria della prima e unica Champions, con la coppa alzata da Gianluca Vialli, un punto di riferimento ancor più fulgido per le sorti future da capitano del Juve che non quel Roberto Baggio, veneto, schivo e talentuoso come lui, a cui sarebbe stato ripetutamente accostato nel tentativo fallimentare – ma non meno odioso – di creare una di quelle contrapposizioni sportive che gli italiani tanto amano. Il gol della vittoria nella Coppa Intercontinentale che ne conseguì. Il grave infortunio di Udine. L’appannamento che ne derivò e che procurò al campione veneto la più cocente delusione della sua carriera, ovvero la summenzionata sconfitta a opera di una Francia semi-imbattibile – il destino avrebbe dimostrato la mendacità di tale assunto – in quell’Europeo di cui, da buon fuoriclasse, Del Piero si è sempre assunto la responsabilità. Il gol contro la Germania a Dortmund e il rigore nella finale di Berlino, in entrambi i casi da subentrante all’amico Totti, in una staffetta che, ancora una volta, sa tanto di dicotomia nazionalpopolare. La Coppa del Mondo alzata. La standing ovation del Bernabeu nel 2008. La commovente ovazione, con infinita passerelle intorno al campo dello Juventus Stadium, nel giorno dell’addio ai colori bianconeri.
Del Piero è un uomo che ha metabolizzato, come succede alla maggior parte dei comuni mortali, la lunga malattia e la morte del padre, vera icona di riferimento, e che ha segnato quattro giorni dopo la sua perdita un gol pazzesco, sciogliendosi in un pianto liberatorio. Gino, suo padre, «per lui era tutto… un modello “silenzioso, concreto, leale”». Le parole di Alex mettono a nudo un ragazzo intelligente nella sua normalità: «Avevo i soldi per provare a fare di tutto per salvarlo, ma non sono serviti a nulla». È lo stesso uomo che ha dovuto mandar giù amaro più e più volte, fingendo di non essere scalfito dalle voci che lo volevano gay, dopato, bollito. Per non dire del suo rapporto difficile con quasi tutti i suoi allenatori, compreso Lippi, che per un motivo o per l’altro, nelle diverse fasi della sua carriera, finivano per preferirgli qualcun altro, senza mai rinunciare alla sua fondamentale leadership nello spogliatoio e ai suoi colpi di genio, seppur da dispensare col contagocce. Con Capello non furono certo rose e fiori, anche se oggi i due interloquiscono con apparente stima reciproca nei programmi sportivi di Sky. Con Ranieri si sfiorò l’incidente diplomatico. L’ex-compagno Ciro Ferrara dichiarò che «Del Piero vuol sempre giocare ed è un problema». E in nazionale andò ancora peggio. A mostrare un atteggiamento ambivalente nei suoi confronti fu lo stesso Gianni Agnelli, con quella insopportabile boria da “padre-padrone” che si concedeva dall’alto del suo potere assoluto. Anche con Andrea Agnelli ebbe attriti forti: il tempo avrebbe dimostrato chi dei due fosse eticamente superiore.
Chi non ha mai smesso di farne una bandiera, “la bandiera”, è il popolo juventino per il quale “c’è solo un capitano”, soprattutto dopo l’attestato di fede eterna espresso dal calciatore all’indomani di Calciopoli, quando decise di restare nonostante un’infamante retrocessione in serie B.