Quella ragazza dell'Heysel che morì tra le mie braccia

Questa è la cronaca, personale e dettagliata e fedele, di quella notte all’Heysel.

Quella ragazza dell'Heysel che morì tra le mie braccia
La tragedia dello stadio Heysel
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29 Maggio 2024 - 08.13


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di Marco Bernardini

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“Cazzo, Marco, dammi una mano. Muoviti. Ho paura che stia morendo”. La voce di Claudio Colombo mi arriva alle orecchie sconosciuta. Non è il mio collega di Tuttosport, in quel momento. E’ soltanto un’anima angosciata e sconvolta, anche lui, finita all’inferno dopo essersi illusa che quella appena varcata fosse la porta del paradiso. Lo guardo. Il viso che tremola, forse per via dei gas fumogeni oppure per l’adrenalina che spinge i neuroni del terrore piuttosto che per tutte e due le cose insieme. E’ inginocchiato accanto ad un mucchio di stracci colorati. Così, paradossalmente, mi sembra. Abbandono taccuino e matita senza quasi rendermene conto. Arrivo al suo fianco. Claudio sta già trafficando freneticamente su quel fagotto.

Su e giù, con le mani serrate, nel tentativo di dare un senso ai due anni di Medicina poi traditi per il giornalismo. Pigia forte all’altezza del cuore fino a quando, con un rantolo sfiatato, una voce che arriva da un pozzo senza fine sibila sottile: “Mamma, papà non voglio morire”. Un cavallo al galoppo ci sfiora con in sella un folle dagli occhi spiritati che fa ruotare un bastone e bestemmia in fiammingo. Aria acida che entra in gola mentre le narici inspirano nauseanti puzze di alcool, sangue e urina.

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“Dài che sei viva, piccola. Tu prendila per le gambe. Scappiamo via da qua”. La teniamo così, in braccio, frenando l’impeto dei passi che vorrebbero farsi ali per fare più presto. Il lamento continua e forse è bene così, pensiamo senza dircelo. Ma tanto sangue ha inzuppato la camicetta e il golfino. Troppo sangue. La barella finalmente. Due infermieri ci “strappano” il fagotto. Sento un pezzo della mia carne rimanere attaccato a quel corpo di giovane ragazza che ora non si muove. Claudio è già scomparso per un’altra missione. Rimango lì, inebetito, a osservare dal basso la mattanza in atto sulla sommità di quello che sembra essere il Golgota. E’ la Curva Z dello stadio Heysel, a Bruxelles.

Il sole sta calando dalla parte delle tribune dove le persone sono immobili come soldatini di stagno. E’ il 29 maggio. Giorno in cui Giuseppina Conti, diciassette anni di Arezzo, non voleva morire. Come tutti gli altri trentotto subito angeli volati via nel cielo del Belgio. Improvvisamente il torpore mi scivola via di dosso. Sono in mezzo al campo da gioco dove il direttore Piero Dardanello ha spedito me e Claudio non appena in tribuna stampa si è capito che qualcosa di grave stava accadendo sul lontano fianco sinistro della curva. L’invasione del terreno è totale. Gli ultras bianconeri hanno sfondato e tentato di dare l’assalto alle gradinate della parte opposta dove, tra una birra e l’altra, gli inglesi sono diventati assassini. Idranti e polizia a cavallo fanno da muro. “Non si giocherà. Impossibile poterlo fare”, penso. Infilo il sottopasso che porta all’esterno. Un paio di colleghi sono già lì. Statue di sale sul confine di uno spiazzo dove, allineati, ci stanno teloni verdi in plastica gonfi di umanità freddata dalla morte. Non è possibile. E’ tutto così assurdo. Viene da urlare. Vomito i resti della merenda consumata prima del lavoro.

Già il lavoro! Raccontare di una partita, di una Coppa, di attimi felici e magari anche di delusione. E sarebbe questo, ora, il lavoro? Dire di trentanove morti ammazzati. “Meno male che non si gioca. Un dovere per i fratelli e le sorelle partiti. Un atto dovuto per Giusy, che chiedeva a babbo e mamma di tenerla per mano e strapparla alla morte”. Invece no. Lo sento dalla vice del giovane uomo che incontro a metà della scala che porta dentro gli spogliatoi della Juventus. Mi pare di conoscerlo. Non so…da qualche parte…forse… E’ in ginocchio che prega. Permesso, mi scusi. Il suo sguardo addosso, la sua vice nel cuore. “Lo dica anche lei al presidente e ai ragazzi. Non possono e non devono scendere in campo. Una tragedia così grande merita soltanto rispetto e silenzio. Mio padre se ne è andato. Sarà già in volo verso Torino”.

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Ora lo riconosco dopo averlo visto tante volte in foto. Edoardo, il figlio dell’avvocato Gianni Agnelli. Ci incontreremo più avanti nel tempo e, per quindici anni, sarà uno dei miei più cari amici fino a quando non deciderà che i sogni, in questo mondo dell’egoismo e dell’interesse dominanti, sono destinati a rimanere tali. Dirà basta con un volo a planare. Sarà domani. Intanto sento il rumore dei tacchetti da gioco che pestano il cemento. Hanno deciso che si gioca. Una Coppa di latta in palio sul campo accanto al quale da due ore c’è un piccolo cimitero. In tribuna stampa, dove faccio ritorno perché “the show must go on”, il clima è surreale. Inviati e direttori, specialmente quelli delle testate sportive, sono letteralmente ibernati in una zona franca dove l’imbarazzo di dover riferire di calcio si scontra con il dovere di raccontare bestiale cronaca nera.

Bruno Pizzul, poi, deve muoversi sul filo dell’equilibrista senza rete sotto perché in Italia la sua voce dovrebbe rassicurare chi ha amici e parenti all’Heysel almeno fino a quando non ci saranno notizie inconfutabilmente certe. Quelle che non tardano ad arrivare, agghiaccianti e sconvolgenti, rendendo la scena di Michel Platini che danza sollevando la Coppa al cielo un disgustoso rito tribale. La notte fu bianca per tutti e popolata da trentanove fantasmi. Un aereo pieno di vergogna ci riportò a Torino. La mattina dopo. Eravamo diversi da quelli che erano partiti.

Post scriptum
Questa è la cronaca, personale e dettagliata e fedele, di quella notte all’Heysel. Qualche anno prima, come inviato per la Gazzetta del Popolo, avevo seguito la guerra dei “Sei giorni” sul fronte israeliano. Vi assicuro che il senso della tragedia, della violenza e della morte provato a Bruxelles è stato infinitamente più intenso di quello sentito sulla pelle per una vera guerra dove, almeno per noi giornalisti, tutto si risolveva con una visita a qualche carro armato distrutto e abbandonato nel deserto. Io non so se la ragazzina che Claudio Colombo ed io portammo via a braccia fosse davvero Giuseppina Conti. Ancora oggi mi auguro sia stata un’altra, poi sopravvissuta. Una cosa è certa.

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Da quella notte il calcio non è mai stato più lo stesso. Neppure per Platini che ha chiesto scusa per essere caduto in trance e per Paolo Rossi il quale ha scritto di provare vergogna ancora adesso per aver giocato. In quanto al mio amico Edoardo avrei preferito conoscerlo in un’altra occasione, ma forse proprio la condivisione di quell’inferno in terra ha provveduto a cementare fin da subito un rapporto speciale ed eterno.

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