C’è un augurio per il nuovo anno di cui a mio avviso abbiamo un enorme bisogno. E’ come se vivessimo sotto l’assedio di opposti complottismi che spiegano tutto nel nome di mali assoluti che loro hanno scoperto essere tali e contro i quali ci chiedono un impegno assoluto. Sul numero de La Civiltà Cattolica in libreria dall’inizio dell’anno padre Diego Fares ci spiega quale sia il pensiero che Francesco ci indica e che, di ogni evidenza, ci salverebbe da tutti gli assolutismi complottisti: è il pensiero incompleto, “ quello che ti porta fino a un certo punto, ma poi ti invita a contemplare in prima persona. Crea uno spazio per farti incontrare la verità. Un pensiero fecondo dovrebbe essere sempre incompleto per dare spazio a sviluppi successivi. Da Guardini ho imparato a non pretendere certezze assolute su tutto, sintomo di uno spirito ansioso. La sua saggezza mi ha permesso di affrontare problemi complessi che non si potevano risolvere semplicemente sulla base di norme, bensì con un tipo di pensiero che permetteva di attraversare i conflitti senza restarne intrappolato”.
Attraversare i confini senza restarne intrappolati è quello che ogni tutti dovremmo desiderare davanti alla pandemia che invece ci vuole chiudere, dentro casa, dentro i nostri confini angusti. Padre Fares cita ancora Francesco e dalla successiva citazione l’occhio non può che fermarsi abbagliato sui queste parole: “Il teologo che si compiace del suo pensiero completo e concluso è un mediocre. Il buon teologo e filosofo ha un pensiero aperto, cioè incompleto, sempre aperto al maius di Dio e della verità”.
Viene da pensare che solo Dio possa avere un pensiero completo, concluso, e allora che si illuda di poterlo avere anche lui si illuderebbe di essere Dio. Così padre Fares comincia una lunga carrellata sul racconto di cosa sia questo pensiero incompleto secondo Francesco riportandoci al primo anno di pontificato, quando Bergoglio disse: “L’unico modo di crescere per una persona, una famiglia, una società, l’unico modo per far progredire la vita dei popoli è la cultura dell’incontro, una cultura in cui tutti hanno qualcosa di buono da dare e tutti possono ricevere qualcosa di buono in cambio. L’altro ha sempre qualcosa da darci, se sappiamo avvicinarci a lui con atteggiamento aperto e disponibile, senza pregiudizi. Questo atteggiamento aperto, disponibile e senza pregiudizi, lo definirei come “umiltà sociale”, che è ciò che favorisce il dialogo. […] Oggi, o si scommette sul dialogo, o si scommette sulla cultura dell’incontro, o tutti perdiamo, tutti perdiamo. Per di qui va il cammino fecondo”.
Ma cosa comporta questa visione? A casa serve a un genio parlare con il suo portinaio? Padre Fares arriva dritto al punto: “Il dialogo implica la convinzione del nostro essere sociale, della nostra incompletezza individuale, che è essenzialmente positiva, perché ci impedisce di essere soggetti chiusi. L’idea su cui Francesco insiste è che «i soggetti siamo tutti noi». Oggi infatti non si nega l’importanza dei diversi saperi e del lavoro di gruppo, tuttavia la tendenza prevalente è quella individualistica, con settarismi elitari. Per la cultura del dialogo è essenziale, invece, l’inclusione di tutti, anche dei meno intelligenti e dei più deboli. E, ancora una volta fulminante, arriva la spiegazione di cosa ci sia al cuore di questo processo dialogico, che queste parole tratte di Francesco illustrano benissimo: “L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale”.
Sin da giovane Bergoglio ha polemizzato con l’idea cara a Voltaire e al suo dispotismo illuminato “tutto per il popolo, niente con il popolo”. Ecco questo è l’esatto opposto di quanto qui si indica, auspica, di quanto si propone come processo dialogico per uscire dal pensiero rigido. Il despota illuminato sa lui quale sia il bene del popolo, e lo realizzerà da solo, senza il fastidio di starlo ad ascoltare, di parlarci, di stringere insieme un patto sociale e culturale. Ecco allora che non può non emergere che “il popolo” non è una sommatoria di persone. Vale per il popolo che fa una nazione, vale per la Chiesa, popolo di Dio. Un credente al lavoro non citerà il Vangelo a memoria, non si comporterà come un automa informato di questa o quella frasetta, ma “deve preoccuparsi di mettere i valori del Vangelo a confronto con quelli che vivono i propri colleghi. Ciò consentirà alla predicazione di non essere «scollegata», o qualcosa di «meramente spirituale», bensì un Vangelo incarnato, che raccoglie le sfide del mondo e risponde alle sue preoccupazioni con proposte efficaci”.Un esempio? Eccolo: “Dire «assistiti» non è lo stesso che dire «ospiti e commensali». Questi ultimi termini hanno un significato evangelico, e il considerare una persona come «ospite» fa sì che cambi il nostro atteggiamento verso di essa: ci inserisce in un dinamismo di accoglienza, ci fa sentire come è bello fare onore a un ospite…” Un conto è un sistema assistenziale, un altro un sistema ospitale, no?
La proposta è dunque un modello inclusivo, che non sarà veramente tale se non si parte dall’incompletezza. Belle parole? Teorie astratte? Buonismo cattolico che non fa i conti con la realtà della vita? Qualcuno può onestamente reagire e pensare così.
Ma padre Fares, con maggiore realismo del suo, lo avverte: “non è possibile «escludere» nessuno. Gli esclusi «si includono» con le buone maniere o, prima o poi, essi «ci escludono» con le cattive maniere. Questo è un altro modo per dire che l’esclusione produce violenza”.
Guardare alle nostre città e alle nostre periferie, alle nostre coste e ai paesi vicini, ai nostri confini e a ciò accade al di là di essi aiuterà a capire che se non si segue la logica che indica Francesco si rischia grosso. Certo, i poveri esclusi da tempo fanno poca paura ad alcuni, ma gli impoveriti? Ancora una volta segue un esempio che padre Fares estrae dall’archivio dei suoi ricordi e che sorprende, lascia sbalorditi per la sua evidente forza: “Nel primo giorno di un campeggio parrocchiale, i giovani erano affascinati dal paesaggio e fotografavano di tutto con i cellulari. La sera, quando spuntarono le stelle, come accade soltanto in montagna dove non c’è smog, una delle ragazze, intenta a fotografare il cielo, a un certo punto esclamò: «Questo non entra in un cellulare!», e si mise a contemplarlo soltanto con i suoi occhi. Questa osservazione è significativa, e la possiamo trasferire dal cielo stellato all’umanità delle moltitudini: occorre guardarla con i nostri stessi occhi, allargati da quelli di Gesù, il Buon Pastore, il quale «guarda le persone con compassione». Soltanto questo sguardo può consentire un approccio inclusivo. Stiamo parlando di guardare umanamente, non attraverso la mediazione scientifica o tecnica, che «influenza e modifica» la realtà nell’osservarla con i propri strumenti”.
Se davvero vogliamo procedere in questo pensiero che prima di cambiare ciò che vediamo cambia noi, dobbiamo cambiare il luogo prescelto per guardare. Padre Fares lo spiega benissimo nella parte conclusiva del saggio: “Chi esce dal proprio ambiente e dal proprio io, cambia mentalità. La realtà si vede meglio dalle periferie che dal centro.
Afferma ancora Francesco: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto. Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica. […] Per capire, ci dobbiamo “scollocare”, vedere la realtà da più punti di vista differenti”.
Uscire, cambiare mentalità, scoprire l’incompletezza del pensiero per evitare che sia un pensiero rigido e quindi privo di vita. E’ questo l’augurio di cui avevamo davvero bisogno per un 2022 che non sarà semplice. Ma potrebbe essere molto importante.
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