La Chiesa e la diplomazia della misericordia e la libertà di parola

Qual è il principale rischio da cui guardarsi per salvaguardare la fratellanza tra i popoli e le nazioni in un mondo fratturato?

La Chiesa e la diplomazia della misericordia e la libertà di parola
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Riccardo Cristiano Modifica articolo

16 Marzo 2023 - 17.33


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Questo decimo anniversario del pontificato di Francesco mi ha portato a dedicare particolare attenzione a due testi importanti. Il primo è il discorso pronunciato dal Segretario di Stato, Pietro Parolin, nel giorno del decennale, in occasione della presentazione del volume del direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, L’atlante di Francesco, con una indicazione preziosa circa la barra da tenere per l’azione diplomatica del «pontificato della fratellanza». Il secondo è l’articolo pubblicato quello stesso giorno dall’ex direttore dell’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, su Domani, che ha analizzato «le luci e le ombre» di un pontificato definito «incompiuto»: proprio qui avrei trovato il segno di una riforma compiuta. Mi spiego. 

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Parolin ha ricordato che il papa ha chiesto al mondo di pregare perché ci sia una grande fratellanza, già dal primo momento in cui si è affacciato dalla Loggia delle Benedizioni il 13 marzo 2013. Ha proseguito dicendo che «nel tempo in cui i pezzi della “terza guerra mondiale” vanno saldandosi tra di loro, occorre essere maggiormente consapevoli che l’attività diplomatica può essere efficace solamente quando riesce ad essere strumento di servizio alla causa dell’uomo e non semplicemente all’interesse nazionale. Questo comporta uno sforzo impegnativo ed esigente non solamente per conoscere le situazioni, ma anche per interpretarle, comprenderne le radici prossime e remote».

Ma come riuscirci? Parlando da cristiano e da diplomatico, ha detto che occorre risolvere i contrasti unendo  «idee divergenti,  posizioni politiche contrapposte e  visioni religiose distanti». Poi ha scelto il discorso rivolto dal papa al corpo diplomatico nel 2016 per presentare, nel contesto presente, la «diplomazia della misericordia». Ha ricordato che proprio a La Civiltà Cattolica Francesco disse che «Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa». Dunque, anche una impalpabile misericordia, per Francesco, si distende effettivamente nel tempo storico, orientando le persone verso processi di riconciliazione. La sua potenza è quella di cambiare il significato dei processi storici. Ma cosa significa «diplomazia della misericordia»? 

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Citando la tesi esposta nel libro da padre Spadaro, Parolin ha detto che questa comporta il «non considerare mai niente e nessuno come definitivamente perduti nei rapporti tra nazioni, popoli e Stati»: quindi una diplomazia quale «arte della pazienza», ma pure «artigianato della speranza». Il vocabolo “pazienza” avrà certamente ricordato al cardinale Parolin il titolo del libro scritto dal suo maestro e predecessore, il cardinale Agostino Casaroli – Il martirio della pazienza – che non significa soltanto che essere pazienti è un martirio, ma che pure la pazienza può essere martirizzata. «La soluzione dei conflitti non giunge dividendo e polarizzando il mondo rigidamente tra chi è buono e chi è cattivo, quasi fosse un film del quale si suppone il lieto fine. […]. L’accettazione della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo “l’impero del bene”. Proprio per questo nessuno è l’incarnazione del demonio». Francesco è arrivato a definire i terroristi «povera gente criminale». «In filigrana, vediamo sempre il peccatore – in questo caso il terrorista – come il “figlio prodigo”, e mai come una sorta d’incarnazione diabolica». 

Siamo al punto decisivo: se questo è l’orizzonte, qual è il principale rischio da cui guardarsi per salvaguardare la fratellanza tra i popoli e le nazioni in un mondo fratturato? Miliardi di persone vivono in zone di conflitto. I mutamenti climatici avanzano ovunque, anche dove non si inquina, con conseguenze gravissime. La «diplomazia della fratellanza» da cosa e come può tutelarci?  

Il suo principale compito è quello di promuovere la «capacità di pensarci non solo come Paese, ma anche come famiglia umana, specialmente nei periodi critici. Quelli che Francesco ha definito i nazionalismi chiusi manifestano l’errata persuasione di potersi sviluppare a margine della rovina altrui, (nella illusione che), chiudendosi agli altri, saranno più protetti. Proprio per questo la Santa Sede crede fermamente nel multilateralismo». Invece «stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader, come ha sottolineato Papa Francesco in Giappone, di fronte agli effetti della guerra nucleare».

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Mi pare di aver ben capito che la diplomazia della misericordia che sembra cosa astratta, idealista, ci metta in guardia dal rifugiarci nei nazionalismi chiusi, rigidi. Questa – diplomaticamente parlando – è la barra da tenere dritta per contribuire all’obiettivo indicato già dieci anni fa da Francesco: la grande fratellanza universale!

Nelle stesse ore del discorso pronunciato dal cardinale Parolin, è stato pubblicato il testo del professor Giovanni Maria Vian che mi ha fatto notare la «riforma incompiuta». Non entro qui nel merito della sua analisi – attenta e ricca – dei dieci anni di pontificato di Francesco. Mi limito al citato elemento del titolo, molto accurato, a quell’evidenziare «luci e ombre». Così mi sono chiesto se questo sarebbe stato possibile nel passato – diciamo prima dello stesso pontificato di Francesco – a molti giornalisti (e non) soltanto ad un ex direttore dell’Osservatore Romano. Alla domanda interiore – in questo tempo di polarizzazione estrema del confronto anche dentro la Chiesa – mi pare si possa rispondere che ora c’è più libertà di parola, anche sul papa, per avvicinarsi alla verità.  

Se finalmente questa libertà di parola dà luogo non più a sfoghi ma a ragionamenti – né apologetici né insultanti – vuol dire che la libertà di espressione è una delle riforme riuscite e che, dopo l’ubriacatura degli estremismi, si vede l’inizio dell’epoca del dibattito franco, onesto, che arricchisce tutti. 

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Nell’articolo di Vian, per me, alcune cose sono condivisibili, altre meno, altre no. Ciò che conta è proprio questo: ora  le possiamo esprimere tranquillamente. Il papa è una persona umana, non è una figura sacrale. Se ne può parlare. Questa è la barra dritta verso un diverso futuro della Chiesa, con speranza. Questa riforma compiuta e  che ora va praticata bene, se funzionerà sarà anche un  buon antidoto contro la malattia del chiacchiericcio.  

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