L’ambasciatore di Palestina (in questo caso l’ambasciatrice) è una persona che per tutta una serie di vicende internazionali abbastanza ovvie e che non serve ripetere, è a tutti gli effetti una personalità che deve essere tutelata dal punto di vista della sicurezza. Una figura ‘sensibile’ sotto quel punto di vista.
A maggior ragione da monitorare di questi tempi, ossia in piena guerra di Gaza mentre in tutto il mondo ci sono manifestazioni pro-Palestina ma anche pro-Israele e potrebbero esserci scalmanati o peggio.
Per questo, in occasione dell’uscita pubblica di Abeer Odeh a Tivoli, un aspetto non secondario è stato quello di garantire la sicurezza della diplomatica ma anche di tutti coloro che avrebbero partecipato all’evento e assistito all’incontro.
Qualcuno forse penserà: ma quali rischi a Tivoli, una cittadina della provincia romana abbastanza tranquilla? Domanda legittima ma ingenua: la storia recente e meno recente ci insegna che tanti misfatti sono accaduti proprio “dove e quando” nessuno se li sarebbe aspettati. L’attentato nella chiesa del paesino di Saint-Étienne-du-Rouvray, a poca distanza da Rouen dove fu ucciso padre Jacques Hamel da due jihadisti, o i tre morti a Carcassonne Trèbes, piccoli comuni nel sud della Francia, per mano di un lupo solitario. E se ne potrebbero citare decine.
Ed è per questo che nei giorni precedenti tra chi ha organizzato l’evento – ed io tra questi – c’è stata una stretta collaborazione con il commissariato di Tivoli (in particolare la squadra informativa) e la stessa scorta dell’ambasciatrice.
Giorni nei quali ho potuto verificare la straordinaria professionalità ma anche la passione con la quale gli operatori della polizia di Stato si sono messi all’opera per creare una cornice di sicurezza intorno all’evento. Un’azione discreta, quasi invisibile, anche per non destare preoccupazione e allarme in città.
Dopo una quasi quarantennale carriera di giornalista e anche di consulente su materie sensibili (e ahimè anche da ex scortato dopo le minacce di morte della Falange Armata, sigla misteriosa che faceva terrorismo psicologico negli anni Novanta) posso dire di poter parlare con cognizione di causa di questi argomenti. E sono realmente rimasto ammirato del meccanismo addirittura cronometrico, messo in piedi da agenti che non cercavano le prime pagine ma che avevano la loro soddisfazione solo nel far bene il proprio lavoro al servizio della comunità.
Perché racconto questo retroscena dell’ambasciatrice di Palestina a Tivoli? Sicuramente per rendere merito a chi – la polizia – da dietro le quinte ha dato un contributo decisivo per un incontro spero utile per far crescere la cultura della pace e del dialogo. Ma soprattutto perché voglio prendere spunto da questa vicenda per sottolineare l’importanza di qualcosa alla quale nessuno dà troppa importanza: la prevenzione.
Da giornalista so bene che un morto fa notizia mentre un ‘non morto’ non fa notizia. E so bene che mediaticamente la prevenzione non esiste anche perché è impalpabile. Che titolo sarebbe: “Oggi nessun si è fatto male”?
Ma la prevenzione era, è e secondo me dovrebbe essere sempre di più il cardine centrale di un modo di agire, di un progetto di Stato più avanzato.
Maglio prevenire o reprimere? Meglio mettere in sicurezza il territorio o aspettare la sciagura? Meglio controllare i cantieri e i luoghi di lavoro per non rischiare l’incidente? Meglio evitare le opere insicure o malfatte o aspettare una mezza scossa, una frana o altro perché crollino case e palazzi con gli sventurati che ci sono dentro?
Domande retoriche. Credo che molti sarebbero d’accordo con me. Ma nella realtà? La prevenzione dà fastidio perché magari abbiamo fretta e ci controllano un documento, c’è un cantiere per mettere in sicurezza un pezzo di territorio che crea una coda, c’è una speculazione che non si può fare o tantomeno un abuso e chi (la sciagura del Rigopiano insegna) osa sottolineare i rischi passa come un profeta di sventura che si oppone allo sviluppo del territorio, al lavoro, alla modernità nel nome dell’ambientalismo ideologico del no…
Siamo di fronte alla totale mancanza di astrazione di cui parlava lo straordinario libro l’ “Homo videns” di Giovanni Sartori. Ossia crediamo solo a quello che vediamo. E siccome non riusciamo ad immaginare quello che potrebbe accadere prima che accada addio prevenzione.
Mi piace ricordare questi aspetti perché vedo troppe cose che non mi convincono: la voglia di repressione anziché prevenzione in tema di sicurezza perché si pensa che la brutalità o fare la faccia feroce porti consensi; il fastidio per i controlli di legalità nel nome di un efficientismo che non va a vantaggio della collettività ma solo dei comitati d’affari, una voglia di de-regolamentazione tipica di quelle società nelle quali l’interesse personale prevale sul bene pubblico o peggio ancora sulla salute e la vita dei cittadini stessi.
Soggiungo, a scanso di equivoci, che in questi lunghi anni ho conosciuto tanti poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili del fuoco, volontari della protezione civile e delle associazioni di soccorso. Gente che ha rischiato o pagato con la vita la lotta al terrorismo o alle mafie o alla criminalità. O che ha salvato persone sotto le macerie, nelle alluvioni, in mare anche al costo di mettere a repentaglio la loro esistenza. A costoro va tutta la nostra riconoscenza e gratitudine.
Ma proprio per questo la prevenzione va valorizzata, va finanziata, va premiata. Più prevenzione meno reati, meno territori sottratti alla legalità e quindi meno bisogno di repressione. Più prevenzione ossia più territori in sicurezza e meno bisogno di vigili del fuoco e protezione civile che contino o morti o allestiscano strutture emergenza.
Mutuando le parole di Bertolt Brecht potremmo dire che con la prevenzione forse avremo meno eroi ma sicuramente avremo più vivi e più sicurezza. Dentro e fuori delle nostre case. Pensiamoci.