Ancora proteste in Marocco: a Rabat, Casablanca, Tangeri, la gente è scesa in piazza chiedendo maggiori riforme politiche, ben oltre la riforma costituzionale avviata dal re Mohammed VI, per attenuare il malcontento delle pazze e sancita con il voto del referendum del 1 luglio.
Nel quartiere periferico di Sidi Othmane a Casablanca, centinaia di manifestanti hanno urlato domenica scorsa slogan per “una costituzione più democratica”. Alle proteste ha preso parte anche il gruppo islamista “Giustizia e Carità” tollerato ma non legale nel paese.
Pur essendo osannata dai media occidentali “ come una vera e propria rivoluzione copernicana”, la riforma verso una monarchia costituzionale che affida alcune prerogative all’esecutivo parlamentare e al primo ministro, mantiene sostanzialmente invariato il potere del re, tanto che per il Movimento dei giovani del 20 febbraio (iniziatori delle proteste) la “rivoluzione” deve ancora venire. Il movimento del 20 febbraio aveva chiesto modifiche alla Costituzione attraverso un’assemblea democraticamente eletta e non tramite una commissione di consultazione voluta e nominata esclusivamente dal re. Quello infatti di cui si accusa Mohammed VI è il fatto che il processo di revisione della Costituzione non è stato né pubblico né condiviso.
Inoltre se da una parte la riforma attuata ridefinisce il Marocco come stato linguisticamente plurale, dato che Mohammed VI ha fortemente voluto il riconoscimento della lingua berbera (Tamazight) come una lingua ufficiale al pari dell’arabo; allo stesso tempo nessun avanzamento c’è stato nella questione del Sahara occidentale, la cui occupazione continua.
Nell’indice democratico redatto da Economist Intelligence Unit, il Maroco rimane al 116esimo posto su 167 paesi in base a parametri quali, la regolarità dei processi elettorali, le libertà civili, il funzionamento dell’esecutivo di governo, la partecipazione della popolazione alla vita politica del paese.
Seppure si consideri la riforma voluta dal monarca, un mezzo cambiamento, farcito di retorica e formalità, c’è anche da dire che lo stesso Movimento del 20 febbraio non è stato finora in grado di mobilitare grandi masse, come avvenuto in altri paesi della regione.
Che si consideri la riforma costituzionale approvata con il referendum popolare un semplice “lifting” di facciata, o al contrario un significativo avanzamento per il paese, nessuna vera riforma per i diritti dei marocchini è possibile se non viene accompagnata da una riforma sostanziale delle forze di sicurezza e dei loro metodi e dall’abolizione delle leggi repressive ancora in vigore. A poco più di due settimane, questa analisi viene dal gruppo in difesa dei diritti umani, Human Rights Watch. “La risposta della polizia all’organizzazione delle manifestazioni non violente è tra gli obiettivi prioritari che dovrebbero essere soggetti a riforma immediata”, secondo HRW. Dal 20 febbraio, data in cui i marocchini sono scesi in piazza, la polizia ha mostrato in più occasioni metodi repressivi e violenti: in molti casi le violenze di cui si sono resi protagonisti gli agenti della sicurezza, hanno provocato ferite tali da necessitare l’intervento di personale medico e paramedico.
Da tempo HRW, insieme alle organizzazioni marocchine in difesa dei diritti umani chiede la riforma del codice della stampa, secondo cui vige la detenzione nei casi in cui si formulano discorsi pubblici o si scrivano articoli che diffamano le istituzioni dello stato o pubblici ufficiali (articoli 45 e 46 del codice della comunicazione). Severe limitazioni esistono anche nel settore stampa e comunicazione: nel 2010 il Ministro della comunicazione ha impedito ad Al Jazeera di trasmettere in Marocco per il “suo giornalismo irresponsabile” rispetto alla questione del Sahara occidentale. La licenza di trasmissione per il canale è stata riattivata solo dopo il referendum del 1 luglio.
In molti casi, fa notare HRW, le autorità non hanno interferito con le manifestazioni indette dal Movimento del 20 febbraio, dimostrando atteggiamenti ben più tolleranti di altri paesi della regione, dove la repressione è molto violenta. Ma in altre occasioni, soprattutto all’inizio di febbraio e marzo, gli agenti della polizia marocchina hanno assalito, in particolar modo a Rabat e Casablanca, i manifestanti. Il governo quindi ha dimostrato un atteggiamento ambivalente, oscillando tra il concedere le autorizzazioni a manifestare e allo stesso a reprimerle, in alcuni casi con le maniere forti. Nonostante gli slogan e le richieste di chi era sceso in piazza, fossero sostanzialmente gli stessi. L’associazione marocchina per i diritti umani ha documentato almeno 100 casi di manifestanti feriti dalle forze di sicurezza tra febbraio e fine maggio, le proteste dove si è più usata violenza sono quelle del 15, 22 e 28 maggio. E nessun poliziotto è stato punito o indagato finora per l’uso indiscriminato dei mezzi repressivi.