Essere giornalisti in Messico

Dal 2000 a oggi sono 71 i reporter uccisi, nel Paese ritenuto dalle Nazioni Unite come il più pericoloso per l’esercizio della professione giornalistica.

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27 Luglio 2011 - 16.01


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Minacce e aggressioni nei confronti di giornalisti e organi di stampa e attivisti sono una realtà ormai dilagante in Messico: a essere presi di mira sono coloro che si occupano di questioni relative alla criminalità e giustizia.

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Anche se l’ufficio del procuratore generale federale aveva rinnovato l’impegno a indagare su questi reati, la maggioranza dei casi sono rimasti irrisolti e il programma governativo di protezione dei giornalisti non è ancora attivo.

Secondo Catalina Botero, responsabile del settore Libertà d’Espressione della Commissione Interamericana dei Diritti Umani, in Messico, la situazione di chi lavora nei media del Paese “è estremamente grave“. Una giornalista del quotidiano messicano ‘Notiver’, Yolanda Ordaz de la Cruz, che era scomparsa da domenica, è stata ritrovata uccisa nello stato di Veracruz, nell’est del paese. Secondo una fonte di polizia, Yolanda è stata ritrovata con la gola tagliata. In precedenza sarebbe stata minacciata perché stava indagando sull’assassinio del vicedirettore del giornale Milo Vela, di sua moglie e del figlio, avvenuto il 21 giugno scorso mentre si trovavano nella loro casa.

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Il 20 giugno scorso era stato assassinato un altro giornalista della stessa testata, Miguel Angel Lopez Velasco, insieme alla moglie e al figlio. In precedenza, il 2 giugno, era stato trovato privo di vita un altro collega, Noel Lopez Olguin, del piccolo quotidiano locale ‘La verdad de Jaltipan’. E poi c’è la storia di Lydia Cacho, giornalista e attivista dei diritti umani che vive a Cancún, stato del Quintana Roo, nel sud est del Messico. Secondo quanto riporta Amnesty International, Lydia Cacho ha iniziato a subire minacce e intimidazioni dopo la pubblicazione di un libro nel 2005, nel quale denunciava un circuito di pedopornografia, che operava nonostante politici e uomini d’affari dello stato di Quintana Roo e di Puebla ne fossero a conoscenza. Dopo essere stata accusata di diffamazione e a seguito di procedimenti giudiziari irregolari, Lydia Cacho è stata arrestata, nel dicembre 2006, minacciata e maltrattata.

Conversazioni telefoniche registrate, e successivamente pubblicate da alcuni organi di stampa, hanno dimostrato il coinvolgimento di ex funzionari governativi di alto livello dello stato di Puebla nell’arresto e nei maltrattamenti della donna. Nel 2009 la Commissione interamericana dei diritti umani ha chiesto al governo messicano di fornirle misure di protezione.

Nel 2010, Lydia Cacho ha pubblicato un altro libro, portando alla luce ancora una volta la tratta di donne e ragazze e facendo i nomi delle persone presumibilmente legate a queste reti criminali. Lydia è stata nuovamente minacciata di morte via email e per telefono a causa del suo lavoro come giornalista. Le è stato chiesto di non parlare altrimenti sarebbe stata uccisa e chi l’ha minacciata ha sottolineato che quello era l’ultimo avvertimento. Essere giornalisti e difensori dei diritti umani in Messico vuol dire essere sottoposti ad aggressioni, arresti e il costante rischio di essere uccisi. La libertà di espressione è fortemente a rischio e nessuna protezione per i giornalisti è ancora attiva. Inoltre la corruzione dilagante nelle forze di polizia e il conseguente rafforzarsi della mafia messicana contribuiscono a rendere molto dure le condizioni di vita per molti messicani e, soprattutto, per molti giornalisti.

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