Utoya: il bersaglio eravamo noi

Tanti giovani sono caduti ad Utoya, ma molti di più restano in piedi. È la rete europea dei giovani che combattono la stessa battaglia per una società più giusta.

Utoya: il bersaglio eravamo noi
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27 Luglio 2011 - 10.27


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di
Davide Sardo
Giovani Democratici Roma

Sul massacro che si è consumato lo scorso venerdì 22 luglio in Norvegia mancano ancora di numerosi dettagli. Il quadro che abbiamo a disposizione permette già, tuttavia, alcune considerazioni. Al momento sappiamo di 93 vittime, 97 feriti (di cui 10 in condizioni gravi) e 5 dispersi, e di un solo attentatore, Anders Behring Breivik, un giovane norvegese che avrebbe concepito quest’atto di terrorismo “come mezzo per risvegliare le masse europee” e favorire una “rivoluzione sociale” contro “multiculturalismo, marxismo e islam”.

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Soprattutto sappiamo che 86 delle 93 vittime sono dei ragazzi, la maggior parte sotto i vent’anni, che partecipavano al raduno estivo dell’Auf, l’organizzazione giovanile del partito laburista norvegese, sull’isolotto di Utoya, a pochi chilometri da Oslo.

Jens Stoltenberg, Primo Ministro norvegese, nonché leader del partito laburista, ha dichiarato: “Hanno attaccato quanto di meglio esiste in una democrazia: i giovani impegnati in politica”. In particolare, nel delirante memoriale ritrovato nel computer dell’assassino, erano i partiti i nemici da eliminare. I partiti della sinistra riformista, innanzitutto, con il loro progetto di una civiltà aperta e plurale, ma non solo. I partiti in generale erano dipinti come un ostacolo alla “dichiarazione di indipendenza dell’Europa” propugnata dall’attentatore.

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Nella follia del gesto, insomma, il carnefice aveva scelto con cura il bersaglio. I giovani che si erano riuniti a Utoya sotto le insegne dell’organizzazione giovanile dell’Arbeiderpartiet, infatti, sono per davvero la prima linea del fronte che si oppone alla “rivoluzione” auspicata nel memoriale di Breivik. Giovani che non si accontentano del mondo così com’è, che ne analizzano e ne criticano le disfunzioni e le ingiustizie, ma che non si limitano ad esprimere la loro frustrazione e la loro paura per il proprio futuro, e invece si organizzano e partecipano ad una struttura larga e democratica, con l’ambizione di governare il loro Paese e di contribuire al governo dell’Europa.

Una struttura che non si limita a dar voce ad una protesta o ad un interesse particolare, ma si propone di rappresentare un vasto blocco sociale e di mediare gli interessi rappresentati in vista di una soluzione condivisa che persegua il bene comune. Un partito, insomma, e in particolare l’Arbederpartiet, da sempre in prima linea proprio nella battaglia per una pace costruita su una società aperta in cui le diverse culture siano messe in condizione di convivere. Non un gruppo di giovani indignati, insomma, ma un’associazione di compagni. Che non è una differenza da poco.

Il sentimento antipolitico che si nutre della paura per un futuro che non sembra più destinato a mantenere la promessa di una crescita infinita pervade ormai larghe fette di società, rendendole permeabili rispetto ad idee pericolose per il mantenimento di un ordine democratico. Ma, seppure ormai colpevolmente sdoganato anche nell’area politica e culturale della sinistra, questo sentimento resta l’alimento principale dei movimenti populisti che stanno moltiplicando le loro forze in tutta Europa.

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E’ una corrente che ha ormai riportato in superficie idee e slogan inquietanti, che mascherano razzismo e prevaricazione sociale dietro a contraddittorie affermazioni di tipo identitario. La crociata contro il multiculturalismo non è un’invenzione di Anders Breivik, ma un’idea veicolata da sedicenti intellettuali e picchiatori ripuliti per giustificare il desiderio di quella parte di classe media cha ha paura di impoverirsi, di continuare a fondare i propri privilegi sull’ingiustizia sociale. In nome della difesa di un’astratta identità che nessuno è, poi, in grado di definire con precisione, ma solo di suggerire genericamente e in funzione escludente, si giunge a sacrificare la vera cifra dell’identità comune dei popoli europei, cioè la faticosa affermazione della pari dignità di tutti gli esseri umani. Non sappiamo se Breivik ha agito da solo, ma ha ragione Eskil Pedersen, segretario dell’Auf, quando dice che “questo massacro immane non può essere liquidato come all’atto di un folle isolato”. Molti, tra coloro che condannano la cieca violenza dell’assassino, non possono in realtà ritenersi immuni da una quota di responsabilità.

Sempre a proposito di identità, i giornali di questi giorni si riferiscono generalmente a Breivik definendolo un “fondamentalista cattolico”. Credo che si tratti di un’espressione piuttosto ambigua, che merita una riflessione. Il punto è che il termine “fondamentalista” sembra richiamare l’idea di un’interpretazione intransigente e radicale di alcuni principi della religione e della cultura cattolica, mentre in questo caso mi sembra piuttosto che l’attentatore si serva liberamente di passi selezionati à la carte dal breviario dell’ateo devoto per suffragare le sue tesi disumane. Il fatto, insomma, che l’attentatore riempia le pagine del suo memoriale con riferimenti a quella che lui vorrebbe far passare come un distillato di una supposta “tradizione cattolica”, che sarebbe secondo lui tradita, tra l’altro, dallo stesso Pontefice Benedetto XVI, fa di lui un usurpatore più che un fondamentalista. Questa riflessione, tuttavia, che oggi deriva dal sentimento di chi si sente violato per l’uso improprio dell’aggettivo di “cristiano”, va, però, tenuta scolpita in mente per la prossima occasione in cui ci si troverà davanti agli occhi la definizione di “fondamentalista islamico”.

Nelle ore immediatamente successive al massacro, Eskil Pedersen, segretario dell’Auf e presente ad Utoya, ha dichiarato: “E’ chiaro che eravamo noi il bersaglio. Non ci faremo zittire, in onore di chi ha perso la vita. Continueremo a tenere alti i nostri ideali di tolleranza e antirazzismo”. Tanti giovani sono caduti ad Utoya, ma molti di più restano in piedi. È la rete europea dei giovani, non solo socialisti, che combattono la stessa battaglia per una società aperta ma non vuota di valori, e incamminata sul binario dell’uguaglianza e della solidarietà.

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