Una strana atmosfera pervade Beirut in questi giorni di settembre. La fine dell’estate è per la capitale libanese un periodo ricco di ricordi storici. In fila, uno dietro l’altro, il Paese dei Cedri commemora, infatti, la morte di Bachir Gemayel, l’inizio della resistenza nazionale e il massacro di Sabra e Shatila. Tre eventi uniti dal filo di ferro dell’occupazione israeliana che da decenni influenza e condiziona drammaticamente la vita di questa piccola nazione. Sembra che il paese non voglia staccarsi dal proprio passato o che lo usi come cartina di tornasole per leggere e capire il presente.
Un presente segnato da una crisi economica che fa sentire pesantemente i suoi effetti sulle classi più deboli, fra queste una piccola-media borghesia letteralmente ridotta alla fame in questi ultimi decenni. Notizie di scioperi si rincorrono sulle colonne dei giornali, facendo capolino fra i titoli dedicati al crack finanziario europeo e in particolare italiano che ha l’onore delle aperture su quasi tutti i media libanesi. Uno sciopero dei trasporti rischiava proprio in questi giorni di paralizzare il Paese, ma ieri, puntuale, è arrivata la revoca. Tutto rimandato, forse a metà ottobre, quando l’intero Libano dovrebbe fermarsi per uno sciopero generale.
Ma l’attenzione dei libanesi è concentrata anche sulla politica, interna e internazionale: da queste parti due facce della stessa medaglia. L’apparente calma seguita alla nomina del governo Mikati rischia ogni giorno di essere minata dalle notizie che arrivano dai vicini paesi arabi, primo fra tutti la Siria. L’instabilità del vicino storico allarma i libanesi, sia quelli filo Assad che quelli vicini all’opposizione. Nessuno sa bene quali potranno essere le conseguenze future, ma di certo conoscono quelle attuali fatte di insicurezza, presenza di cittadini siriani e dal conseguente aumento dei prezzi.
Sulle cosiddette primavere arabe c’è una buona dose di scetticismo, i libanesi conoscono troppo bene l’arte di cambiare nomi e facciate per non modificare la sostanza. In tanti dopo l’iniziale euforia per quelle piazze che rivendicavano diritti e libertà oggi temono un ritorno delle vecchie oligarchie. Tutto questo produce un’ondata di sospetto verso tutto e tutti: si guarda, si ascolta e si cerca di capire cosa si nasconde dietro. Dietro le parole, dietro i sorrisi… Emblematici sono i commenti sul viaggio in Egitto del leader turco Erdogan. Il Libano osservando l’attivismo politico del presidente turco si riscopre paese di confine, stretto fra il desiderio di essere “occidente” e il rimpianto verso un passato ottomano.
È in questo contesto che il Comitato per non dimenticare Sabra e Shatila, a Beirut anche quest’anno per commemorare il 16 settembre il massacro e chiedere giustizia, si è dovuto calare. Una delegazione, quella organizzata dal Comitato (fondato 11 anni fa per una brillante intuizione del giornalista del manifesto Stefano Chiarini) come sempre numerosa ed eterogenea, specchio di un ampio panorama del mondo della solidarietà verso la causa palestinese. Rappresentanti di tante associazioni locali provenienti da Firenze, Napoli, Modena, Reggio Calabria, Pisa, Torino, Roma si mescolano con attivisti senza «casa», fotografi e giornalisti. Praticamente assenti quest’anno le forze politiche, unica eccezione Manuela Palermi del Pdci-Fds.
Per i palestinesi del Libano la presenza internazionale è una vera e propria boccata di ossigeno, che arriva in un momento particolarmente difficile. A minare il morale di quanti da anni lavorano nei campi dei rifugiati sono innanzitutto le divisione interne fra gli schieramenti palestinesi. Può sembrare incredibile ma queste divisioni sembrano ferire più delle stragi di cui in questi decenni sono stati vittime. Anche se in ritardo rispetto Cisgiordania e Gaza la frattura Fatah-Hamas fa sentire pesantemente anche qui i suoi effetti. Soprattutto con veti incrociati e timori di prevaricazione che rischiano di bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa. E questo proprio in un momento in cui ci sarebbe estremo bisogno di unità e mobilitazione. Il nuovo governo libanese, che per la prima volta vede il partito di Hezbollah in una posizione influente, ha fatto molte promesse, fra le quali quella di modificare le leggi esistenti per dare diritti e dignità ai rifugiati palestinesi, ma fin’ora, appunto, solo promesse. La cronaca ci racconta di una legge governativa emanata alcuni mesi fa, che potrebbe aprire interessanti prospettive occupazionali per i palestinesi, ma ancora tutta sulla carta. La realtà è fatta dalla sua inapplicabilità, visto che manca la parte attuativa. E così nella terra dei Cedri ai figli del popolo di Palestina sono ancora precluse tantissime professioni lavorative. Una situazione storica, che sommata alle difficoltà ad accedere alla sanità e all’istruzione, e al divieto di proprietà, fa dei profughi palestinesi in Libano gli ultimi fra gli ultimi.
In questa situazione non può sorprendere la diffidenza che riceve la proposta in discussione in questi giorni alle Nazioni Unite sul riconoscimento dello stato palestinese. Non c’è ostilità, ma timori sì! Timori che come con gli accordi di Oslo questa iniziativa possa mettere ancora più all’angolo la questione del diritto al ritorno e del futuro per i milioni di profughi palestinesi. La domanda che gran parte dei palestinesi del Libano si fanno è: «Chi sarà a rappresentare questo futuro stato? L’Olp che ci rappresenta tutti oppure il governo dell’Autorità nazionale palestinese che sulla carta rappresenta solo Gaza e Cisgiordania?». Una domanda che difficilmente potrà ricevere risposte e assicurazioni e che solo il tempo è destinato a dirimere.
Ancora una volta la storia fa capolino sul presente libanese e si intreccia con la stagione dell’Olp a Beirut, gli splendori e la guerra civile, fino all’uscita da eroe di Arafat dal Libano, dopo mesi di durissimo assedio, in quel lontano 1982, poche settimane prima dall’eccidio di Sabra e Chatila.