La primavera araba? Per capirla dobbiamo guardare il mondo

Ziad Majed parla della primavera araba, esplosa a Tunisi nel gennaio di quest’anno e da mesi padrona della scena in tutto il mondo arabo.

La primavera araba? Per capirla dobbiamo guardare il mondo
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11 Ottobre 2011 - 09.58


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di Kiwan Kiwan

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Ziad Majed è uno dei più autorevoli intellettuali della sinistra libanese. Anni fa con Samir Kassir, assassinato a Beirut nel 2005, ha fondato il Partito della Sinistra Democratica, coniando il termine “primavera araba”. Non tutti lo ricordano, ma la prima volta che si è parlato di primavera e popoli arabi è stato nel 2005, a Beirut, proprio per merito di Ziad Majed e Samir Kassir. Da anni insegna a Parigi e pochi giorni fa è stato invitato nella mia città, Ferrara, per intervenire al Festival di Internazionale. In quell’occasione gli ho chiesto questa intervista, per parlare di questa primavera araba, esplosa a Tunisi nel gennaio di quest’anno e da mesi padrona della scena in tutto il mondo arabo.

Non possiamo separare quello che accade nei paesi arabi dal percorso che ha imboccato il mondo, soprattutto se vogliamo capirne cause e modalità. Se invece vogliamo parlare di risultati occorre più tempo, dato che il cammino è ancora tortuoso e spinoso, può subire contraccolpi, nell’oggi come nel domani. Tuttavia quello a cui abbiamo assistito ci può consentire di trarre delle conclusioni. Direi che la prima conclusione che possiamo già trarre è che anche il movimento arabo ha atteso una scintilla emotiva che fosse capace di portarlo ad abbattere il muro della paura, liberando l’individuo dal peso simbolico delle istituzioni. In tutti i paesi arabi le manifestazioni erano monopolio dello Stato, del potere: dopo tanti anni la popolazione, il popolo, si è impossessato delle piazze per sfidare i regimi.

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La seconda conclusione che possiamo già trarre è che informazione e globalizzazione hanno avuto un ruolo fondamentale nel determinare queste rivolte.

I new media, twitter, facebook, You Tube, hanno consentito non solo di diffondere idee e sentimenti che i regimi non possono più oscurare, ma anche di farlo accadere al di là di ogni confine, muovendo le popolazioni e generando al contempo simpatie. La diffusa urbanizzazione di massa isolava i giovani inurbati dal loro contesto originario, dal villaggio. Ora non è più così. Il muro che separa città e campagne o deserto è caduto e questo consente nuove forme di coordinamento superando anche gli ostacoli geografici.

Ora bisogna seguire con attenzione i processi elettorali in Tunisia e Egitto, mentre temo che in Libia e Yemen le violenze saranno ancora lunghe e diffuse”.

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E in Siria?

“La situazione della rivoluzione siriana è particolare in questa primavera araba. La violenza repressiva del regime siriano non ha precedenti, come anche il coraggio del popolo che sfida pacificamente una macchina repressiva capace di massacrare migliaia di manifestanti. Tutto questo è senza precedenti, come la capacità dei rivoluzionari siriani di essere presenti in varie zone del Paese, aree metropolitane e piccoli centri, campagne, zone montuose. E’ un’articolazione e diffusione del processo rivoluzionario che non abbiamo visto così diffusa ed evidente in Egitto, ad esempio. Poi bisogna considerare il grande sforzo popolare necessario a tenere viva una rivoluzione nonostante l’isolamento dal mondo che il regime ha imposto al paese e l’isolamento che ogni villaggio ha rischiato di patire dal resto della Siria. E tutto questo per mesi e mesi, come è noto. Ma tutto questo, con 3200 morti certificati e decine di migliaia di casi di internamenti arbitrari non è bastato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu per esprimere una condanna del regime. Il regime siriano crede di potere seguitare imbrogliare il mondo, alimentando, come ha fatto da decenni, crisi politiche in altri paesi. Bombardamenti in Libano, l’uso di alcuni gruppi palestinesi, strumentalizzazione di alcune forze curde, l’invio di autobombe in Iraq, ecc.

Di certo, purtroppo, i danni che la famiglia Assad ha arrecato agli arabi non sono finiti e altro dobbiamo aspettarci, a cominciare da un ulteriore inasprimento della repressione”.

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