La scuola di gomme che infastidisce i coloni

Si intensifica la campagna per impedire che venga distrutta la struttura che garantisce l'istruzione a bambini delle comunità beduine in Cisgiordania.

La scuola di gomme che infastidisce i coloni
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9 Dicembre 2011 - 15.11


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di Massimo Annibale Rossi

I bambini giungono a piedi o a dorso d’asino dalle comunità che punteggiano i versanti dell’autostrada per Gerico. Hanno scarpe sfondate, piccoli zaini colorati. La loro è una scuola unica al mondo: costruita con duemila pneumatici usati, ha resistito all’ampliamento dell’autostrada e alle incursioni dei coloni israeliani. La «Scuola di gomme» di Alhan al Ahmar è sotto ordine di demolizione da due anni.

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Alhan al Ahmar significa «ostello rosso» ed è il luogo della parabola del Buon samaritano. Ai viandanti si è sostituita una teoria di auto che sfrecciano verso Gerusalemme. Le comunità locali appartengono al clan Jahalin, scacciato nel ‘48 da Tal Arad, nei pressi di Beersheba. Sopravvivono accalcati in baracche di lamiera, ancora chiamate «tende», circondati dalle amate capre. Tra loro gli indici sanitari sono comparabili all’Africa sub sahariana. I campi sono considerati «illegali» dall’autorità israeliana, e quindi privati d’acqua corrente, elettricità, fogne.

I Jahalin sono caduti in quella piega della storia, uscita dal Processo di Oslo come Area C. Si tratta del 60 % della Cisgiordania, che doveva passare ai palestinesi entro il 1999. L’Area C è rimasta sotto occupazione e le colonie hanno raddoppiato la popolazione. La «Scuola di gomme» è sovrastata dal lussureggiante settlement di Kfar Adumim. Al di là dell’autostrada svettano le torri di Maale Adumim, l’impianto industriale di Mishor Adumim e, più a est, la Nuova Gerico. L’insieme del territorio rivendicato dalle colonie si estende dalla periferia di Gerusalemme a Gerico, inglobando il sistema di sorgenti dei Jahalin.

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Fino alla primavera del 2008, i bimbi di al Ahmar erano raccolti da uno scuolabus, che si fermava nello spiazzo a lato dell’A1. La polizia iniziò a multare il conducente, istituendo un divieto di sosta nell’area. Infine il mezzo venne requisito. Alcuni rinunciarono, altri tentavano ogni mattina di farsi dare un passaggio o di raggiungere la scuola di Anata a piedi. Tre di loro vennero investiti e i genitori del campo ritirarono i bimbi.

I Jahalin compresero che l’unica possibilità per avere una scuola era costruirsela. Si rivolsero a Ramallah e ottennero l’appoggio del ministero dell’educazione. Con i soldi raccolti tra le comunità tentarono di realizzare una prima struttura in lamiera, che tuttavia non superò l’esame della forza di gravità.

«Vento di Terra», una piccola ong milanese, si occupava di educazione e micro-imprenditoria nei campi profughi di Gerusalemme. L’incontro con i beduini avvenne sul tema dei diritti dei minori. Colpivano le condizioni delle comunità, i ventri gonfi, la sete perenne, la mancanza di qualsiasi servizio. I Jahalin chiesero a VdT di aiutarli a terminare la scuola. L’ong replicò la propria inadeguatezza e decise di lanciare un appello alle agenzie internazionali. L’area C era caduta in una sorta di limbo, in cui i diritti apparivano sospesi. A fronte dell’insediamento di 40 mila coloni, ai palestinesi non era concesso edificare. I beduini si rendevano conto che senza cultura la propria gente non avrebbe avuto futuro e intendevano agire. Un leader beduino durante un incontro chiese: «Ma voi, la rivoluzione francese, come l’avete iniziata?».

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Nonostante le perplessità, s’iniziarono a definire ipotesi d’intervento. VdT operava da tempo in collaborazione con il gruppo «Architettura e Cooperazione», legato all’università di Pavia. L’edificio, per non incorrere nelle sanzioni dell’autorità militare, doveva risultare non permanete e privo di fondamenta. Bisognava edificare con un budget limitatissimo, senza utilizzo di cemento, in bio-architettura e in tempi brevissimi. ArCò lanciò un appello sulla rete, invitando i giovani architetti ad avanzare delle proposte.

Giunse dal Brasile l’idea di costruire riciclando pneumatici usati. Si trattava dell’earthship, tecnica sperimentata nel New Mexico, dall’architetto Michael Reynolds. Il progetto fu sottoposto all’assemblea dei muchtar, che reagirono freddamente: «Come può una scuola nascere dai rifiuti?». Ma i lavori iniziarono poche settimane dopo, a metà maggio. Lo scetticismo divenne entusiasmo quuando il primo muro fu completato. I pneumatici, riempiti di sabbia pressata, si tramutavano in solidi mattoni di 80 cm di diametro. Dopo le difficoltà iniziali, le squadre di lavoro presero il ritmo.

La struttura fu terminata a fine maggio. Nel frattempo il progetto suscitò l’interesse dei media internazionali ed iniziarono a giungere al cantiere delegazioni e studenti da vari paesi e da Israele. Ai contributi raccolti, si sommarono i patrocini di vari comuni del milanese, della Cei ed in seguito della Cooperazione italiana. Si riuscì a finire in tempo per ottenere l’inserimento della scuola nel sistema educativo da parte dell’Autorità palestinese. La Scuola primaria mista di Alhan al Ahmar iniziava le proprie attività a settembre 2009, ospitando 80 alunni.

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Parallelamente giunse l’ordine di demolizione emanato dall’esercito. Il provvedimento sarebbe stato seguito da una serie di cause presentate dalle municipalità delle colonie vicine e dalla Maat, la compagnia stradale israeliana. I coloni sostenevano che la scuola costituisse una minaccia per la loro sicurezza. La Maat affermò che di lì a qualche mese l’ampliamento della A1 avrebbe interessato l’area e che una bretella di raccordo sarebbe passata sopra la scuola. Le comunità beduine dovettero organizzare un’onerosa difesa legale e presentarsi alla Corte suprema israeliana.

La Corte deliberava a fine novembre, invitando le parti a confrontarsi per trovare una soluzione «creativa», che cautelasse i diritti dei bimbi. Né l’esercito né i coloni accettarono la trattativa, mentre la Maat, che temeva ritardi nei lavori, sì. La strada sarebbe passata rasente alla scuola e parte della collina ove questa sorge sarebbe stata smantellata. La linea tracciata dagli ingegneri costrinse i beduini a tagliare un pezzo di tetto e a spostare i bagni, ma la scuola era salva.

Si trattava di una vittoria parziale, in quanto l’ordine di demolizione restava attivo, ma significativa. Nel frattempo la situazione dei 12 mila beduini della valle del Giordano si faceva più critica: demolizioni, attacchi da parte dei coloni, ostacoli per l’accesso ai pascoli. Inoltre con il procedere dei lavori divenne chiaro che la Maat non aveva intenzione di realizzare un accesso stradale per la scuola. Trattandosi di un’arteria ad alta percorrenza, in problema era gravissimo, rischiando di isolare il campo. Per ottenere una temporanea soluzione, ci volle una nuova trattativa e un’azione legale. Il clima si fece pesante: gli ordini di demolizione e le pressioni sui campi si acuirono. La «Scuola di gomme» divenne obiettivo delle incursioni dei coloni, che irrompevano armi alla mano durante le lezioni.

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Il terzo anno didattico s’inaugurava in un’atmosfera tesa. Il movimento dei coloni aveva scatenato una forte offensiva mediatica e intentato una nuova causa, in cui si ribadiva l’istanza di demolizione. Da parte sua, l’esercito dichiarava nel mese di settembre i dettagli di un piano di «ricollocazione» delle comunità beduine, da realizzarsi nei tre anni successivi. I Jahalin erano destinati ad essere concentrati nei pressi di Al Alzariya, a lato di una discarica. A sostenere la causa beduina si levavano le agenzie internazionali e una campagna fu lanciata da Unrwa, Unicef, Amnesty International e Vento di Terra. Una sentenza definitiva della Corte suprema è attesa per fine dicembre.

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