Ad un anno dall’inizio delle rivolte che hanno portato alla caduta di Ben Alì in Tunisia la partita è ancora tutta aperta. Trecentosessantacinque giorni possono essere lunghi, ma nello stesso tempo può essere un periodo brevissimo. Tremendamente lungo per chi un anno fa scendeva in piazza per chiedere riforme sociali e lavoro; per quelle donne e quegli uomini delle aree agricole e minerarie del centro del Paese che vedevano come un miraggio la fine del mese. Zone, queste, da sempre depredate e costrette a vivere in una arretratezza cronica a vantaggio delle città della costa ricche di investimenti e infrastrutture. Una “questione meridionale” in chiave tunisina.
Proprio da queste regioni un anno fa iniziava la rivolta: una scintilla imprevista ai più, che covava sotto la brace della povertà e delle umiliazioni. Le prime manifestazioni spontanee nascono per reclamare uno sviluppo diverso, i diritti, la possibilità di poter puntare su di una agricoltura moderna e competitiva, la necessità di avere finanziamenti e su tutto la volontà di creare occupazione. Il lavoro, quel maledetto pensiero che come un tarlo scava giorno dopo giorno nelle teste dei giovani che riempiono le vie dei grossi paesi dell’entroterra. Il lavoro terminato, il lavoro rubato, quello sparito e quello che non c’è mai stato.
In testa alle manifestazioni giovani disoccupati, spessissimo ragazzi con un titolo di studio anche elevato, molti dei quali ritornati dopo esperienze migratorie in Europa: dalla Francia, dall’Italia, dalla Spagna… Vittime anche loro della crisi economica che noi stiamo imparando a conoscere in questi giorni. Quei giovani che passo dopo passo diventano protagonisti di una lotta che ad un certo punto non può più tornare indietro. Ce lo raccontano oggi ad un anno di distanza: “La paura di essere arrivati ad un punto di non ritorno, la necessità di andare avanti, di arrivare alla caduta del regime come unica soluzione per non finire schiacciati dallo stesso”. Conoscevano bene questi giovani di cosa era capace Ben Alì e la banda che gli stava intorno. E così la rivolta passa dalle campagne alle città della costa, attraverso le vie di quella migrazione silenziosa che da anni affollava le periferie urbane. I giovani delle campagne fuggono agli arresti e si nascondono nei luoghi oscuri di Tunisi, Sfax, Sousse, diventando in breve ambasciatori della rivolta e nello stesso tempo gli agitatori delle città. Un mix che ha reso particolare quello che è successo in Tunisia, con caratteristiche veramente nazionali.
Oggi questi giovani vivono la frustrazione di non aver visto cambiata la loro vita. Il lavoro continua ad essere un miraggio e se si guardano alle spalle vedono il ritorno alla marginalità come un rischio sempre più reale. Parlando con questi giovani – poco importa se militanti dei partiti della sinistra o di associazioni o ancora senza nessuna “casa” – il ritornello è pressoché unanime: “Noi siamo stati usati come carne da macello”, “Abbiamo dato alla rivoluzione martiri e feriti… per avere cosa?”, “La rivoluzione ce la stanno scippando ancora una volta quelli della costa…”. Per questi giovani la rivolta significava emancipazione sociale, una vera rivoluzione se vincente. Per questo 365 giorni di stallo risultano insopportabili. Un tempo lunghissimo.
Ma tante cose sono cambiate in quest’anno. Innanzitutto si è votato, nell’ottobre scorso. Per la prima volta dopo decenni ci sono state elezioni vere, forse anche libere. Tantissimi i partiti che si sono sfidati per la formazione di una assemblea costituente che avrà il compito di ridisegnare lo Stato tunisino. Forse troppi. Molte persone si sono trovate spaesate davanti alla scheda elettorale che in alcune circoscrizioni sembrava un vero e proprio lenzuolo. I continui rinvii inoltre avevano fatto affiorare prima rabbia, poi una certa disillusione, uno dei tanti motivi che aveva portato pochi tunisini a iscriversi nelle liste elettorali. Infine il miracolo, avvenuto nelle ultime 24 ore. Come una febbre contagiosa tutti si sono ritrovati davanti ai seggi con la voglia di partecipare, di votare. Code lunghissime e infiniti problemi. Alla fine un risultato che non sorprende, se non nella partecipazione: la vittoria schiacciante del partito islamico Ennahda. Una forza islamico-moderata, che ha origine dalla corrente della fratellanza musulmana e che oggi guarda con estremo interesse alla Turchia di Erdogan e al Qatar. Come amano spesso ripeterci “qualcosa di simile alla Democrazia Cristiana”.
A dir la verità a sorprendere è invece la disfatta delle forze moderate e di sinistra. Il Pdp, forza di centrosinistra che aveva l’ambizione di contendere la vittoria al partito islamico si ritrova con una manciata di voti e di seggi. La sinistra, più o meno radicale, divisa in mille rivoli, raccoglie consensi ben al di sotto delle aspettative. Tutti dopo il voto riconoscono che l’essersi fatti trascinare in una sorta di guerra santa fra laici e religiosi ha favorito proprio Ennahda, che comunque nonostante la schiacciante vittoria non ottiene un risultato che gli consente di controllare da sola l’assemblea e di governare provvisoriamente il Paese. Lo ammette anche il suo leader storico, sheik Rashid Ghannouchi: “Il popolo ci ha dato una grande forza, ma ha anche detto che non dobbiamo governare da soli”. Il governo provvisorio – che resterà in carica durante i lavori della costituente (che però non ha una data limite per i suoi lavori) – è infatti composto da tre partiti, e la stessa maggioranza ha eletto il capo dello Stato.
E’ bene sapere che in Tunisia il concetto di laicità viene tradotto e quindi inteso come rivendicazione di ateicità. Un rifiuto dell’Islam che è risultato incomprensibile agli abitanti di uno stato che per oltre il 94 per cento si definisce islamico-sunnita, anche perché per anni era stato uno dei punti di forza, spesso strumentale, dei governi prima sotto Bourghiba e poi sotto Ben Alì. Oggi proprio su questo la discussione all’interno dell’assemblea costituente è serrata. Il primo nodo da dirimere è infatti se la Tunisia è una “nazione islamica” o se è uno “Stato islamico”. Un apparente gioco di parole che nasconde il futuro del Paese. Nessuno mette in discussione la prima formulazione, la Tunisia è araba e islamica, mentre dietro la seconda si nascondono le nubi di un integralismo che potrebbe invadere e trasformare la piccola nazione nordafricana.
Ma attenzione, Ennahda si vuole proporre come partner accettabile e affidabile dell’Occidente, non vuole fare nessuna forzatura (almeno in questa fase) e si trova a dover combattere la concorrenza delle forze salafite, che tra l’altro auspicano un ritorno al califfato. Pertanto sono gli stessi esponenti di Ennahda – nello specifico gli esponenti che del dipartimento cultura del Partito – ad affermare che i salafiti sono oggi i loro peggior nemici, insieme alle forze che vorrebbero una laicità “in stile francese”, con le loro pratiche violente e settarie. In pratica Ennahda si propone come forza centrista, di equilibrio. Per fare questo da qualche settimana cavallo di battaglia del partito islamico è diventato “il riportare la Tunisia all’ordine”. Frase sibillina, che fa temere prossime misure repressive verso quanti continuano a manifestare in tutto il paese.
Dietro lo scontro fra Ennahda e le forze salafite si nasconde però un conflitto ben più ampio e importante, quello che vede contrapposti da una parte il Qatar e dall’altra l’Arabia Saudita. Oggi il Qatar cerca di accreditarsi come protettore di gran parte delle forze islamico “moderate” e attraverso queste cerca di strappare ai sauditi il primato di stato connettore fra islam e capitalismo statunitense. La risposta di Rihad è pertanto difensiva e si risolve in un appoggio a quelle forze musulmane estreme, come i salafiti (da sempre legati al wahabismo della corona saudita). Su tutto comunque parlano i fatti, a partire dalla presenza dell’emiro del Qatar alle celebrazioni a Tunisi per il 14 gennaio, anniversario della rivolta e della cacciata di Ben Alì, per finire alla composizione del governo che vede al ministero degli esteri un politico legatissimo agli interessi quatarini, lo ha anche rappresentato anni fa alle Nazioni Unite, o al Ministero dello sport un calciatore che ha giocato a lungo proprio in Qatar.
Infine la sinistra. Sicuramente il ruolo avuto nei giorni della rivolta, specie da parte del Pcot (il Partito comunista operaio tunisino, forza che trae origine dalla tradizione della sinistra non Pc tunisino) aveva lasciato sperare ad un riscontro elettorale di ben altre proporzioni. Invece per stessa ammissione del suo segretario generale, Hamma Hammami, “è stato deludente”. Evidentemente la nuova fase politica che caratterizza la Tunisia obbliga anche i partiti storici, perseguitati sotto Ben Alì, a ripensarsi e a fare i conti con la necessità di conquistare consenso. Altro aspetto è poi la disgregazione e come questa abbia pesato con un sistema elettorale che penalizzava le piccole formazioni. Il sistema elettorale, infatti, è fondato su di un proporzionale, ma con collegi relativamente piccoli. In questo modo anche se in assenza di un vero e proprio sbarramento, nella pratica si hanno delle soglie altissime da superare per conquistare un seggio alla costituente. Una soglia spesso fatale per le forze della sinistra. Il 37 per cento dei voti espressi è stato disperso per non aver concorso ad eleggere nessun seggio. A proposito di sistema elettorale, questo ha prodotto un vero e proprio paradosso: dele 49 donne elette nell’Assemblea costituente, ben 42 sono di Ennahda. Come è possibile? L’arcano è svelato facilmente: in Tunisia è d’obbligo l’alternanza uomo-donna nelle liste elettorali, ma i tanti collegi fanno sì che solo la forza maggiore elegge due seggi in un collegio e siccome la donna è collocata come seconda ecco la risposta.
Di tutto questo la sinistra sta discutendo ed è di particolare interesse il processo che vede il Pcot insieme al Movimento progresso e democrazia (Watad) fra i promotori di una ricomposizione della sinistra marxista e antimperialista. Un percorso certamente non facile, anche perché si scontra con le incomprensioni e i sospetti che una fetta di movimento – potenzialmente vicino e alleato di questa sinistra – continua ad avere nei confronti dei partiti e dei suoi leader. Hammami comunque non si sottrae alle critiche ma ricorda come “le elezioni siano state condizionate dai soldi arrivati dal Qatar e dalla Turchia, l’Islam ‘atlantico’ insomma, e di come la stampa non ha avuto un ruolo neutro e libero”. Sempre per Hammami non bisogna scordarsi poi il ruolo strumentale della religione durante la campagna elettorale: “Nelle moschee la parola d’ordine era ‘votare Ennahda’”. Una cosa risulta chiarissima al variegato mondo della sinistra: gli Usa puntano per il futuro su di una classe dirigente islamista cosiddetta liberale, e Ennahda ha oggi una posizione liberista più spinta dello stesso Ben Alì.
C’è poi El Ettajdid, partito oggi di sinistra moderata anche se storicamente erede del Pc tunisino. El Ettajdid si propone di ricostruire intorno a se uno schieramento riformista capace di candidarsi come alternativa all’attuale maggioranza. Anche in questo caso i principali ostacoli sono dovuti alla frammentazione e alla diffidenza diffusa all’interno del movimento protagonista della rivolta. Non si perdona ad El Ettajdid l’ambiguità tenuta negli ultimi anni del regime di Ben Alì. Vera ambiguità o più semplicemente realismo e voglia di sfruttare gli spazi, seppur minimi, che si stavano aprendo? Questa è la domanda che molti si pongono. E’ comunque innegabile il buon lavoro che in questo anno El Ettajdid ha portato avanti specie nei centri urbani della costa e fra gli emigrati. Un impegno che ha ricevuto un riconoscimento apprezzabile, anche se del tutto insufficiente a divenire reale perno del sistema politico progressista. L’obiettivo è comunque la costruzione insieme al Pdp e al Fpt di un polo laico e democratico in grado di attrarre il voto di quella fetta di Tunisia che considera questi valori un fattore irrinunciabile. Un polo che al momento esclude volutamente la sinistra estrema, che al contrario ha più volte lanciato messaggi di dialogo ai vicini “fratelli-coltelli” del progressismo tunisino.
Tutti a sinistra – in forme esplicite e meno – non nascondono comunque di puntare su una “seconda fase della rivoluzione”. E pensando al futuro una segnalazione merita il lavoro del movimento Desturna, un’organizzazione giovane costruita su base innovativa che oggi si propone di essere “strumento programmatico di unità”. Una forza di sinistra che non vuole però essere partito. Da Desturna è arrivata nelle scorse settimane la proposta più interessante di ipotesi costituzionale, sicuramente la più completa, e non è casuale che proprio Ennahda abbia chiesto a questa associazione un incontro per discutere le proposte messe in campo.
Ma parlare dell’evoluzione della sinistra senza capire cosa succede dentro il sindacato unico tunisino è impossibile. Molti dei processi che investono le forze politiche di cui abbiamo sopra parlato si intrecciano con quanto accade all’interno del Ugtt. Il sindacato tunisino è stato l’elemento di svolta delle proteste dell’anno passato. La sua discesa in campo è coincisa infatti con gli ultimi giorni e poi con il crollo del regime. Una scelta non scontata, visto che i suoi dirigenti nazionali erano emanazione del regime di Ben Alì. La sua autorità e il suo prestigio quindi sono stati conquistati nelle piazze ed è stato da subito un elemento fuori discussione.
L’Ugtt è appena uscito da un congresso difficile, il primo veramente libero, che ha registrato una affermazione della componente di sinistra, che avrà una parte importante a definire il futuro del Paese. Il risultato non era scontato, Ennahda ha provato in tutti i modi a condizionare la dirigenza, ma alla fine l’elezione dei nuovi leader ha segnato una vittoria del fronte della sinistra.
Chiari e scuri dunque, che lasciano aperte tante porte.