Le proteste contro l’aumento delle tasse in Cisgiordania non si fermano e arrivano a colpire personalmente il primo ministro palestinese: dimissioni subito, questa la richiesta dei manifestanti che nell’ultimo mese sono scesi nelle piazze delle principali città.
Hebron, Ramallah, Nablus, Betlemme, Salfit. Centinaia i palestinesi che hanno preso parte a manifestazioni contro il premier Salam Fayyad e il suo piano fiscale volto a ridurre la dipendenza dei Territori Occupati dagli aiuti esteri. Soprattutto dopo il congelamento di finanziamenti da donatori storici come gli Stati Uniti, che hanno cucito il portafoglio dopo la richiesta di indipendenza presentata a settembre da Abbas alle Nazioni Unite.
E il buco di bilancio s’è allargato. L’incremento delle tasse previsto dal governo di Ramallah, così come spiegato dal premier Fayyad, ha l’obiettivo di ridurre un deficit da 1,1 miliardi di dollari che pesa sulle casse dell’Anp, a cui va aggiunto un debito pari a 400 milioni di dollari verso imprese private. Con un budget annuale pari a 3,2 miliardi di dollari nel 2011, un flusso in entrata dato dalla tassazione pari a 745 milioni e quello degli aiuti esteri fermo a 750 milioni, salta subito all’occhio il gap. A pagarne le spese i contribuenti palestinesi, tartassati dal proprio governo, mentre l’occupazione militare israeliana impedisce loro di sviluppare una sana e solida economia interna.
Sabato scorso ad Hebron, città a Sud della Cisgiordania, per la prima volta la rabbia dei manifestanti si è tramutata in una richiesta precisa: il corteo partito dalla sede del Comune e arrivato al Ministero dell’Economia ha chiesto dimissioni immediate, Fayyad si faccia da parte. Ma il premier non pare intenzionato a lasciare e difende un piano fiscale che l’Autorità Palestinese descrive come egualitario: l’aumento delle tasse colpisce i più ricchi e le compagnie più grandi e permette all’Anp di liberarsi dalla stretta dipendenza dagli aiuti internazionali.
Ma sul terreno la situazione appare diversa: a subire le dirette conseguenze sono in particolare commercianti e imprenditori palestinesi, quel settore privato che è il più colpito dall’incremento della pressione fiscale. E che vede volatilizzarsi ora i guadagni realizzati negli scorsi anni prima che una dura crisi economica si abbattesse sui Territori Occupati: il consistente flusso di aiuti internazionali aveva spinto in alto il livello dei consumi, incrementando significativamente le vendite.
Il nuovo piano fiscale prevede l’aumento dell’imposta sul reddito (la nostra Irpef) di ben il 30%. Ma non solo: se da una parte sono state create nuove tasse su immobili e terreni, dall’altra la scure dei tagli alla spesa pubblica ha colpito sanità e educazione. Per non parlare di un tasso di inflazione ormai alle stelle: il continuo aumento dei prezzi intacca ulteriormente il già esiguo potere d’acquisto palestinese. Un aumento strettamente collegato all’inflazione israeliana: l’Anp è costretta ad acquistare l’elettricità da Israele e negli ultimi mesi le bollette sono raddoppiate se non triplicate, secondo i dati forniti dal Palestinian Center Protection Society.
E il piano fiscale va ad abbattersi sulle fasce più povere della popolazione, quelle che ora chiedono “diritti sociali e democratici” per le strade delle città. E che non credono alle promesse dell’Anp: la scorsa domenica, il 29 gennaio, il premier Fayyad ha annunciato la sospensione dell’incremento delle tasse fino al 15 febbraio. Due settimane di tempo in più durante le quali l’Anp intende “aprire il dialogo con tutte le fazioni e le istituzioni”, ha fatto sapere Ramallah in una dichiarazione ufficiale.
“Le proteste – ha detto ieri Othman Abu Sabha, membro del National Initiative Party, all’agenzia stampa Ma’an News – sono la naturale risposta a misure governative che stanno facendo impennare il tasso di disoccupazione”. “Il governo vuole aumentare le sue entrate mentre l’occupazione israeliana impedisce ai palestinesi di controllare e gestire le proprie terre”, ha aggiunto Badran Jaber, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, mentre il Partito del Popolo marciava a Betlemme chiedendo la cancellazione di un piano economico che promuove l’ingiustizia sociale.
Proprio i partiti di sinistra, Pflp in testa, stanno organizzando e animando le proteste di questo mese contro l’aumento delle tasse. Un modo con cui l’indebolita sinistra palestinese potrebbe riprendersi il ruolo da anni abbandonato: ripartire dalla base, tornare a rappresentare le reali richieste e i concreti bisogni di un popolo schiacciato tra Hamas e Fatah e le rispettive egemonie a Gaza e in Cisgiordania. E tra poco di nuovo uniti nel nome del governo di unità nazionale.
Senza dimenticare il ruolo svolto dall’occupazione militare israeliana che strozza l’economia palestinese e i cui effetti nefasti di controllo di risorse, tasse e vie di comunicazione non sfuggono al popolo palestinese: secondo un sondaggio condotto su un campione di 840 persone tra Gaza e Cisgiordania dalla Near East Consulting, compagnia di Ramallah, la stragrande maggioranza della popolazione ritiene che, se l’Anp sta affrontando una simile crisi finanziaria, la colpa è da imputare alle barriere poste da Israele su trasporti e movimento.
Solo il 12% degli intervistati ritiene l’aumento delle tasse la soluzione al buco di bilancio. Mentre per il 54% la copertura del deficit si può ottenere solo attraverso gli aiuti internazionali. Insomma, la comunità internazionale ne è responsabile: adesso ci aiuti.