Vigilia di una nuova guerra del petrolio

Sudan e Sud Sudan, da poco indipendenti, rischiano il conflitto. Per il greggio che si estrae a sud ma transita per il nord. Un oleodotto diventa una miccia. [Francesca Marretta]

Vigilia di una nuova guerra del petrolio
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6 Febbraio 2012 - 15.27


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di Francesca Marretta

Il Generale Omar al-Bashir, presidente del Sudan, sul cui capo pende una condanna della Corte penale internazionale per crimini di guerra, contro l’umanità e genocidio per le stragi commesse in Darfur, ha parlato esplicitamente di un ritorno al conflitto armato con Juba, capitale del Sud Sudan, nato con la secessione da Khartoum lo scorso anno. «Andremo alla guerra se saremo forzati ad andare alla guerra», ha dichiarato venerdì scorso al-Bashir. Il casus belli è vecchio come il cucco: l’oro nero su cui siedono i sud-sudanesi, che però restano tra i più poveri della terra. L’uomo forte di Khartoum ha evocato il ritorno alla guerra col Sud Sudan, dopo che per l’ennesima volta non è stato raggiunto un accordo con Juba sullo sfruttamento dei proventi del petrolio, né sulla demarcazione della zona di confine di Abyei, ricca di giacimenti. Il greggio sudanese è concentrato a sud, ma lascia l’Africa da Port Sudan, sul Mar Rosso, territorio sotto giurisdizione di Khartoum.

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Durante una riunione ad Addis Abeba dei leader dell’Africa orientale, tra cui, il padrone di casa Meles Zenawi, il presidente del Kenya Mwai Kibakie e il sudafricano Thabo Mbeki, presidente dell’African Union High-Level Implementation Panel (Auhip), Salva Kiir, ha respinto una proposta di al-Bashir che prevedeva il pagamento di 5,4 miliardi di dollari come dazio di transito del greggio da saldare con oltre 35mila barili di greggio al giorno. “E’ difficile accettare un accordo che rende la nostra gente vulnerabile, dipendente e in dovere di pagare milioni che non ha. Respingiamo l’idea che la pace passi per la dipendenza reciproca dalle nostre due nazioni. La dipendenza ci ha portato solo continui scontri e sofferenze. Questo ciclo deve essere spezzato”, ha detto a termine di quella riunione Salva Kiir. Secondo rivelazioni del Sudan Tribune, Omar al-Bashir ha detto ai suoi ministri di aspettarsi il peggio rispetto al contenzioso con Juba, ignorando il parere contrario a un ritorno alla guerra dei capi del suo esercito.

La guerra civile sudanese, il più lungo conflitto del continente africano, è durato a fasi alterne circa venticinque anni. La questione petrolifera, sovrapposta a dispute territoriali resta il nodo centrale del contenzioso. In Sudan la frattura tra nord arabo-musulmano e il sud cristiano-animista, accanto ad atavici conflitti etnico-tribali, ha fatto e fa da paravento alla questione primaria: lo sfruttamento delle risorse. Sotto l’egida dell’Unione Africana i contendenti torneranno allo stesso tavolo per tentare di districare gli stessi nodi. Nel frattempo si lanciano accuse di fuoco. Khartoum dice che Juba ha deciso di sospendere la produzione petrolifera per provocare il crollo del regime di al-Bashir. Il Sud Sudan accusa a sua volta il nord di gioco sporco ed essersi appropriato di circa 40mila barili risultanti mancanti dal campo petrolifero di Palouge. Se Omar al-Bashir pensa alla guerra non è tanto per i barili di greggio che oggi non incamera, ma perché tra breve, addirittura entro un anno, potrebbe restare tagliato completamente fuori dalle rotte del petrolio Made in South Sudan.

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A fine gennaio Sud Sudan e Kenya hanno firmato un accordo per la costruzione di un oleodotto che trasporterà il petrolio di Juba verso Lamu, affacciata sull’Oceano Indiano. La nuova rotta del greggio oltre che a ovvie implicazioni economiche, ne cela anche di più importanti dal punto di vista strategico e militare. A fare da sfondo all’agenda ufficiale dei colloqui tenuti lo scorso gennaio a Gerusalemme tra Salva Kiir e il Premier israeliano Benjamin Netanyahu, vi erano, appunto, le future rotte del petrolio sudanese e la strategia militare di contenimento delle forze islamiste attive nel Corno d’Africa, come gli shebaab somali, che vede coinvolti Paesi africani alleati degli Usa come Uganda, Etiopia, Kenya e Ruanda. Il Sud Sudan indipendente rientra nello stesso schieramento di interessi. Non a caso la visita di Salva Kiir in Israele è stata preceduta da quella del primo ministro kenyota Raila Odinga, a cui Netanyahu avrebbe assicurato un impegno militare per contrastare l’insurrezione jihadista somala, che lo scorso anno ha colpito anche il Kenya.

Israele e Sud Sudan hanno oggi più elementi in comune e non solo economici. Se lo Stato più giovane del mondo cerca investimenti per lo sviluppo e appoggi per la gestione dei pozzi di petrolio, Israele, mai così isolato in Medio Oriente è in cerca di alleati. La perdita di un partner strategico come Hosni Mubarak e la prospettiva di un’affermazione delle forze islamiste in Egitto rendono la necessità di contrastare il blocco di interessi militari ed economici di cui fa parte Khartoum e che arriva dritto a Teheran, più stringente che mai per Netanyahu. «Il meeting diplomatico tra Salva Kiir e gli israeliani si ripercuote sugli interessi del Sudan e sulla sua sicurezza nazionale, visto che Israele e le sue lobby costituiscono una parte significante della campagna internazionale per fomentare il conflitto nella regione occidentale del Darfur», ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri sudanese. Juba si inserisce nella sfera di interessi strategici degli Usa e dei Sauditi e mettono insieme come alleati nella regione africana orientale, oltre ai sud sudanesi, Etiopia, Kenya, Uganda e Ruanda. Khartoum sta dall’altra parte della barricata, in ottimi rapporti con Teheran. E non starà certo a guardare mentre Juba lo lascia a bocca asciutta, senza più una goccia di petrolio.

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