Israele, marcia indietro sulla guerra all'Iran

La vicenda Grass e le parole del capo di Stato maggiore israeliano hanno toccato il punto chiave: quanto è fondata la minaccia nucleare di Teheran? I dubbi del Pentagono.

Israele, marcia indietro sulla guerra all'Iran
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28 Aprile 2012 - 08.38


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di Guido Moltedo

Retrospettivamente, si coglie una delle ragioni, se non la principale, della durissima reazione del governo israeliano alla poesia-appello, “Ciò che va detto”, di Günter Grass, culminata nella “punizione” del premio Nobel tedesco considerato persona non grata in Israele. Lo scrittore ha toccato un nervo sensibile, nel punto più nevralgico del potere israeliano, quando, con la sua sortita, ha voluto ridimensionare il pericolo rappresentato dal regime iraniano e dai suoi progetti nucleari. Una minaccia “usata” dal governo di Tel Aviv, in particolare dal primo ministro Benjamin Netanyahu, per rafforzare ulteriormente il dispositivo militare, anche grazie alla fornitura di sottomarini a propulsione atomica da parte tedesca. Lo scrittore è stato messo a tacere – è stato riportato a galla il suo passato giovanile di membro delle Ss – e si è evitato di entrare nel merito del suo “ragionamento”.

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Ed è quel che invece fa il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, generale Benny Gantz, capo delle forze di difesa israeliane (Idf). Gantz, proprio nel giorno del sessantaquattresimo anniversario dell’indipendenza israeliana, ha deciso di rilasciare un’intervista al quotidiano progressista Haaretz. Per affermare che «l’Iran ancora non ha imboccato la strada senza ritorno, quella che porta alla costruzione della bomba atomica» e che ha deciso di arricchire l’uranio al venti per cento, quel che serve a scopi civili. «Per imboccare la via della bomba – dice il capo militare – deve alzare la soglia dell’arricchimento al 90 per cento. Non lo ha fatto e non credo che lo farà. Io credo che l’Iran sia governato da persone molto razionali». Questo perché le sanzioni funzionano, dice Gantz, che non può certo essere annoverato tra le colombe. Semplicemente l’alto militare è in sintonia con quel che affermano i suoi colleghi statunitensi, per primo il suo omologo, il generale Martin Dempsey, capo della giunta dei capi di stato maggiore Usa, che in un’intervista alla Cnn, lo scorso febbraio, dichiarò che l’Iran è «un attore razionale» e che sarebbe stato prematuro intraprendere azioni contro di esso.

Allora, le affermazioni di Dempsey – il quale si disse anche certo che un attacco israeliano non avrebbe causato danni durevoli ai siti iraniani – irritarono parecchio il premier Netanyahu. Ma ecco il punto, che la sortita di Gantz mette a nudo: non solo i massimi vertici militari israeliani sono in sintonia con il Pentagono e con l’amministrazione Obama, ma il supergenerale dice a voce alta quel che pensa anche il ministro della difesa Ehud Barak e perfino, in parte, il superfalco Avigdor Lieberman, ministro degli esteri tutt’altro che diplomatico.

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Se Netanyahu si spinge fino al punto di affermare che chi si rifiuti di riconoscere la minaccia iraniana non ha imparato niente dall’olocausto nazista («Hanno paura di dire la verità, che è oggi, come fu allora, quella di gente che vuole annientare milioni di ebrei»), gli altri big della coalizione di governo sono molto più cauti. Barak non s’oppone categoricamente all’arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran, sotto supervisione internazionale, ed è pronto ad accettare il 3.5 per cento di arricchimento, mentre il premier è nettamente contrario a ogni percentuale di arricchimento. E Lieberman? Di recente, ha detto che bisogna dare alle sanzioni economiche e alle pressioni internazionali il tempo di avere effetto, e che non c’è fretta.

Conclusione di Haaretz: «Il primo ministro è in qualche modo isolato sull’Iran». Un fatto politico rilevante, ma anche con risvolti militari importanti. Difficilmente Netanyahu potrebbe decidere un attacco contro l’Iran senza il sostegno pieno del ministro della difesa e di gran parte del security cabinet, dove, appunto, si trova in minoranza, e, naturalmente, senza l’appoggio dei militari e del Mossad. Da questa divisione in seno ai vertici politici e militari non si può saltare a conclusioni definitive, né arrivare al punto di tracciare una linea tra falchi e colombe, ma, più semplicemente, si può marcare quella che, sull’Huffington Post, lo psicologo e opinionista israeliano Carlo Strenger definisce una svolta nel segno del “pragmatismo” e un “addio all’isteria”.

Certo è che la messa in piazza di quel avrebbe dovuto restare una discussione rigorosamente top secret – perché attiene alla sicurezza dello stato, e dunque confinata nelle segrete stanze del potere israeliano – ha avuto un effetto deflagrante, sicuramente superiore ai calcoli del capo delle forze armate. Tanto che egli ha dovuto in qualche modo ridimensionare le sue parole. Ma nel farlo ha creato un ulteriore problema al governo di centro-destra. Già, perché ha tirato in ballo altre potenze, pronte a colpire le centrali iraniane. Gantz ha avvertito che altri paesi, senza precisare quali, hanno allertato le loro forze per un potenziale attacco contro i siti nucleari iraniani. «non solo le nostre forze sono pronte, ma anche altre forze», ha precisato il numero uno dell’Idf. A quali paesi allude? A quegli stessi che stanno trattando con Teheran?

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Comunque, Gantz ha tenuto a specificare di non aver negato la volontà iraniana di accedere all’atomica militare, ma di essere convinto che la Repubblica islamica, alla fine, si piegherà alle pressioni internazionali. Insomma, ha smussato le sue valutazioni sul rischio iraniano ma non le ha corrette nella sostanza. E, rispetto alle divergenze con il capo del governo, si è limitato a smentirle senza entrare nei dettagli.

D’altra parte, la sua sortita non ha suscitato scalpore solo in Israele, ma ha letteralmente spiazzato anche gli americani. Il capo del Pentagono, Leo Panetta, ha detto di sperare che Gantz «abbia ragione»e che «sappia qualcosa di più di quanto sappia io». E ha sottolineato di non disporre di «alcuna informazione specifica che indichi che (gli iraniani) abbiano preso una decisione in un senso o in un altro».

Probabilmente Gantz non ha misurato bene le parole, soprattutto nell’affermare che i leader iraniani sono “razionali”. Infatti, proprio su questo termine si sofferma il ministro Barak, chiarendo che i dirigenti di Teheran non sono «razionali nel significato occidentale del termine, se esso connota senso di ricerca di uno status quo e di ricerca di una soluzione pacifica dei problemi». Stesso refrain nelle parole di Netanyahu. In un’intervista alla Cnn, il premier dice di non «volere scommettere sulla sicurezza del mondo puntando sulla razionalità del comportamento iraniano».

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Dall’Iran, d’altra parte, in un simmetrico e perverso gioco speculare, la minaccia israeliana è usata per spostare l’attenzione dagli effetti reali che sta producendo sulla vita quotidiana l’applicazione delle sanzioni internazionali. L’accerchiamento morde più della retorica. Tanto che il governo iraniano ha accettato di andare al negoziato a Istanbul e, il mese prossimo, a Bagdad. Muovendosi su questo terreno bisogna stare attenti a non dimenticare che il regime di Teheran continua a usare il pugno di ferro contro l’opposizione e contro il dissenso. La premio Nobel in esilio Shirin Ebadi plaude al successo dei negoziati sul nucleare tra Iran e il gruppo 5+1 lo scorso 14 aprile a Istanbul, ma ricorda anche che, di simili negoziati, dovrebbero essere parte la democrazia e i diritti umani calpestati da un governo «a cui non piace la pace con il proprio popolo e non è interessato a ad ascoltare quel che il popolo ha da dire».

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