Corno d'Africa: la difficile transizione

Nonostante la guerra civile perduri in Somalia si insedia un nuovo presidente. Svolte anche in Kenya ed Etiopia. E l'Eritrea...

Corno d'Africa: la difficile transizione
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17 Settembre 2012 - 16.08


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di Davide Maggiore

Non solo Somalia: gli ultimi due mesi hanno cambiato il volto dell’intero Corno d’Africa, e tutti o quasi i Paesi di questa regione – dagli equilibri delicati quanto importanti – attraversano ora una fase di transizione che va osservata attentamente.

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Lo scenario della Somalia è quello che spesso fa da valvola di sfogo per i contrasti delle potenze regionali: tra le truppe che sostengono a vario titolo l’ancora debole governo di Mogadiscio ci sono quelle del Kenya, dell’Etiopia e anche dell’Uganda (uno degli alleati prediletti degli Usa nella regione). Invece il governo eritreo, nonostante le ripetute smentite di Asmara, è stato frequentemente accusato di sostenere clandestinamente i militanti islamici radicali di al-Shabaab, che contendono il controllo del territorio al governo, alle milizie sue alleate e alla missione internazionale Amisom che fiancheggia le autorità. Autorità che, secondo quanto stabilito dagli accordi di Garowe (conclusi tra dicembre 2011 e febbraio 2012), stanno cambiando letteralmente faccia dal primo agosto scorso, giorno in cui è stata approvata la nuova Costituzione del Paese. Questa ha permesso il passaggio dei poteri dalle istituzioni federali di transizione, che avevano – almeno nominalmente – retto il Paese dal 2004, a nuove autorità: il 20 agosto si è insediato un Parlamento, che il 10 settembre ha votato per eleggere il presidente della Repubblica. Ad uscire vincitore dallo scrutinio è stato, a sorpresa, Hassan Sheikh Mohamud, legato all’ala locale dei Fratelli Musulmani, ex-professore universitario ed ex-funzionario dell’Unicef, che ha sconfitto il vecchio ‘presidente di transizione’, Sheikh Sharif Sheikh Ahmed, che alcune voci accusavano anche di aver tentato di corrompere i ‘grandi elettori’ pur di assicurarsi la conferma alla massima carica.

Non è tuttavia un compito facile quello che attende il nuovo capo dello Stato somalo, come egli stesso ha capito all’indomani della sua elezione, quando un attentato ha colpito l’hotel Jazira, dove Mohamud stava incontrando il ministro degli Esteri kenyano: entrambi gli uomini politici sono però rimasti illesi. L’attacco è stato rivendicato da al-Shabaab, che ha mostrato di essere ancora in grado di colpire nella capitale, da cui pure i suoi uomini erano stati scacciati un anno fa.

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I miliziani islamisti, però, sono a loro volta sotto attacco a sud, nella roccaforte di Kismayo, che ormai da settimane è sotto il fuoco anche della marina kenyana. Le milizie filo-governative che assediano il bastione dei fondamentalisti sostengono che la conquista della città, da cui molte famiglie di civili sono già fuggite, sia ormai questione di giorni. Nonostante ciò, appare evidente come né i progressi militari né quelli istituzionali del fragile Stato somalo siano possibili senza il supporto delle truppe provenienti dall’estero, e dunque la volontà dei governi stranieri di continuare a sostenere i grandi costi – anche umani – delle missioni militari.

A livello istituzionale, però, se non l’instabilità, almeno l’incertezza domina in due degli Stati più importanti da questo punto di vista. Il primo è il Kenya, storicamente uno dei Paesi-guida dell’Africa orientale, che ha però denunciato al mondo tutta la sua fragilità con gli scontri seguiti alle elezioni presidenziali del 2007. Dopo cinque anni di gestione condivisa del potere tra il capo dello Stato Mwai Kibaki e il primo ministro Raila Odinga, già suo rivale nelle urne, e l’approvazione di una nuova costituzione, il nuovo voto è previsto per marzo 2013.

Dopo la misteriosa morte di uno dei candidati più quotati, l’allora ministro George Saitoti, in un incidente aereo, a contendersi la vittoria elettorale saranno presumibilmente lo stesso Odinga e l’ex ministro delle Finanze Uhuru Kenyatta. Quest’ultimo, figlio del ‘padre della nazione’ Jomo Kenyatta, è però stato messo sotto accusa dalla Corte penale internazionale proprio per le violenze post-elettorali del 2007, e nella sua stessa situazione si trova un altro dei candidati, William Ruto: il rischio che il Paese si trovi ad eleggere un presidente, per così dire, ‘sub judice’ è dunque concreto, proprio mentre le tensioni interne mostrano di essere ancora numerose.

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Alcune sono legate al Mombasa Republican Council, movimento indipendentista che chiede la secessione della più ricca area costiera, accusando Nairobi di sottrarre alla regione la maggior parte delle risorse che produce, e che invece il governo considera ‘infiltrato’ da al-Shabaab.

Sempre a Mombasa, l’uccisione di un religioso islamico – considerato a sua volta dagli Stati Uniti un sostenitore degli integralisti somali – ha provocato proteste e 3 morti alla fine di agosto. E nella regione del fiume Tana, nella parte meridionale del Paese, circa 40 persone hanno perso la vita negli scontri tra due comunità rivali della zona: si è trattato delle violenze più massicce dopo quelle del 2007.

Di natura ben diversa è l’incertezza che attraversa l’Etiopia, alle prese con la successione di Meles Zenawi, il premier morto di malattia lo scorso 20 agosto dopo 20 anni di potere assoluto.

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A succedergli nel ruolo di capo del Fronte Democratico-Rivoluzionario del popolo d’Etiopia è stato chiamato il primo ministro ad interim, Hailemariam Desalegn, già vice del defunto, ma gli osservatori internazionali si chiedono se il nuovo leader sarà in grado di gestire l’eredità politica di Meles senza averne il carisma.

Nel Paese molte comunità hanno motivi di risentimento per i metodi autoritari di governo, e la stessa capitale Addis Abeba ha vissuto recentemente proteste di piazza. Alla situazione guardano con attenzione le potenze occidentali (anche l’Etiopia, oltre all’Uganda, è stata per anni una fedele alleata ‘regionale’, in particolare per quanto riguarda gli Stati Uniti dell’era-Bush), ma potrebbe approfittarne anche la nemica storica degli etiopi, l’Eritrea.

Sempre che, a loro volta, le ‘alte sfere’ di Asmara riescano a gestire le tensioni che le riguardano. Queste non arrivano certo dalla società civile: Human Rights Watch ha definito da anni il Paese “una prigione a cielo aperto” e Réporters Sans Frontières ha recentemente denunciato la morte di tre giornalisti rinchiusi da oltre 10 anni in carcere, una condizione peraltro condivisa persino con alcuni ex ministri del presidente-padrone eritreo, Isayas Afewerki. E proprio dalla lotta per la successione a quest’ultimo derivano le tensioni, tutte interne ai palazzi del potere.

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Negli ultimi mesi si erano diffuse voci, riprese dalla stampa estera, di una malattia dell’uomo forte di Asmara: si era parlato addirittura della formazione di un comitato di transizione incaricato di gestire il potere. Un’apparizione televisiva di Afewerki aveva messo fine ai dubbi sulla sua sorte ma non, secondo fonti d’opposizione, ai contrasti tra alti ufficiali e personalità politiche per la successione.

Un argomento che è circondato ufficialmente da un segreto assoluto, come molti altri nel Paese che ha spesso spinto la sua proclamata ‘autosufficienza’ oltre i limiti dell’isolazionismo, aggiungendo altre incognite a uno scenario regionale strategicamente importante quanto fragile.

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