Nelson Mandela, da giorni ricoverato in ospedale, non gode di buona salute. Ma il ‘suo’ Sudafrica, che fu speranza per un intero continente, non sta meglio di lui. Paradossalmente, a seppellire quasi definitivamente gli ideali di Madiba nel momento stesso in cui ne celebravano l’opera sono stati il partito a cui ancora appartiene, l’African National Congress, e vecchi compagni di lotta come Cyril Ramaphosa.
Ramaphosa, nominato vicepresidente dell’ANC nel congresso che il partito ha svolto a Mangaung dal 16 al 20 di questo mese, sarà probabilmente anche il vice del riconfermato leader Jacob Zuma se – come è praticamente certo – la sua formazione vincerà le elezioni generali previste per il 2014. Apparentemente il giusto coronamento di una carriera cominciata nel sindacato e ricordata anche dal Nobel Mandela, che nella sua autobiografia ‘Lungo cammino verso la libertà’ (edita – è bene specificarlo – negli anni Novanta) lo definì “uno dei dirigenti più brillanti della nuova generazione”. Quasi vent’anni dopo, però, bisogna ammettere che le lodi di Madiba avrebbero meritato un miglior destinatario.
Il sessantenne Ramaphosa, come diversi altri compagni di partito, è oggi un uomo d’affari di successo: non certo una colpa, specialmente in un Paese dove la minoranza bianca è stata addirittura più restia ad abbandonare il potere economico di quanto avesse fatto con quello politico. Tuttavia, da consigliere d’amministrazione della compagnia mineraria Lonmin (basata in Gran Bretagna), il vecchio sindacalista sembra aver rinnegato il suo passato di paladino dei lavoratori.
Quando la scorsa estate i minatori sudafricani di Marikana (dipendenti della Lonmin) diedero vita ad uno sciopero selvaggio, Ramaphosa parlò delle manifestazioni come “ignobili azioni criminali” in una email indirizzata ad un altro dirigente della compagnia. Gli scontri tra sindacati rivali, è vero, avevano già fatto dieci morti, ma lo sfogo telematico andava oltre. “C’è bisogno di un’azione – aggiungeva Ramaphosa – per affrontare questa situazione”. La fine è nota: il 16 agosto la polizia aprì il fuoco sui manifestanti. I morti furono 34. E quell’email – insieme ad altre dai toni simili, dirette anche ad esponenti di governo – è agli atti della commissione d’inchiesta sull’accaduto.
Sulla carriera politica di Ramaphosa, probabilmente, la notizia ha pesato meno rispetto alla sua fedeltà al presidente Zuma, a sua volta molto più impopolare di quanto il risultato del congresso di Mangaung (hanno votato per lui tre quarti dei delegati) potrebbe far pensare. All’indomani del trionfo, in effetti, il noto commentatore politico Justice Malala definiva il presidente in carica “il tallone d’Achille” del suo partito e i suoi discorsi “una bella canzone e niente più”.
Justice Malala non ha però risparmiato neanche l’avversario di Zuma, il vicepresidente in carica Kgalema Motlanthe che, sostiene il giornalista, sarebbe la persona più adatta per scrivere un libro su “come non impostare una campagna elettorale”. Molto più popolare del rivale (le percentuali di gradimento sono rispettivamente del 70% e del 52%), Motlanthe, già presidente ad interim per pochi mesi prima dell’elezione di Zuma, sarebbe infatti apparso indeciso e incapace di trasmettere alcun messaggio al di fuori di un generico ‘cambiamento’ rispetto all’attuale leadership. A influenzare negativamente l’apparato di partito – continua Malala – potrebbero essere stati anche alcuni compagni di corsa ‘ingombranti’ del candidato perdente: gli aderenti alla Lega giovanile dell’ANC, che hanno fama – giustificata – di radicali, ancora influenzati dal loro discusso ex leader, Julius Malema, esponente populista espulso dal partito.
Dopo la vittoria Zuma ha affermato che con i giovani si dovranno “fare i conti”, perché i componenti dell’ANC “non sono contenti di come la Lega giovanile si è comportata”. E sebbene il presidente abbia negato che sia in corso “una guerra” nel movimento al potere, rischia – secondo la stampa locale – di vedere abbandonata la sua amministrazione da alcuni nomi prestigiosi. Tra i partenti, oltre a Motlanthe e all’altro oppositore di Zuma, Tokyo Sexwale, ci sarebbe il responsabile della Pianificazione Nazionale, Trevor Manuel (storico ministro delle Finanze di Mandela, del successore Thabo Mbeki e di Motlanthe).
Nella sua scelta Manuel avrebbe – sostiene il quotidiano ‘Mail & Guardian’ – la ‘benedizione’ personale dell’arcivescovo emerito anglicano Desmond Tutu, secondo cui l’ex ministro delle Finanze “non appartiene a questo governo”. L’anziano ecclesiastico – anche lui vincitore di un Nobel per la Pace – ha recentemente criticato l’amministrazione in carica per la scarsa attenzione ai poveri.
Ridurre il disagio sociale, ancora molto forte malgrado il Paese sia una potenza economica emergente, è una delle sfide principali – se non proprio la prima – per i politici sudafricani. La sua gestione richiederebbe forse un altro Mandela, ma – propaganda a parte – chi avrebbe dovuto raccoglierne il testimone sembra aver dimenticato, se non proprio tradito, il suo messaggio di pacificazione.