Il Mali tra gas, petrolio, uranio e terrorismo

Le armi di Gheddafi e i separatisti Tuareg. La Jihad. Le tensioni nel paese e in altri stati non accennano a placarsi. I guai che ci aspettano se sarà Mali. [Ennio Remondino]

Il Mali tra gas, petrolio, uranio e terrorismo
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Ennio Remondino Modifica articolo

20 Gennaio 2013 - 18.30


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Sacrilegio. La guerra della nostra modernità ora si introduce nel mondo della fiaba e ci violenta i sogni. Aẓǎwad era un tempo la regione a nord di Timbuctu, nelle grandi distese saheliane e sahariane abitate dai nomadi Tuareg. Gli Uomini Blu, come sono conosciuti i Tuareg, dal velo color indaco che indossano e che colora di blù la loro pelle. Un popolo nomade che vive nel sud del Magreb, Algeria e Libia e nel Sahel del Niger, Mali, Burkina Fasu. Essi si definiscono Kel Tamacheq, coloro che parlano il Tamacheq o anche Kel Taguelmust, coloro che portano il velo. Oggi sono forse, a malapena, 3 milioni. I Tuareg, per secoli i dominatori del deserto.

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Poi l’Islam. I Tuareg discendono dalle popolazioni berbere preistoriche del mediterraneo e già al tempo dei fenici e dei romani, avevano un’avanzata organizzazione sociale, economica, artistica e religiosa. Le pitture rupestri del Sahara li raffiguravano su carri con le ruote e comandati da 4 cavalli. Con l’arrivo dell’Islam nel I secolo dell’Egira, 1300 anni fa, i Tuareg furono dispersi verso il Sud nel Sahara nelle montagne dell’Hoggar, dell’Air e dell’Adradr degli Iforas. La colonizzazione francese divise il popolo tuareg in confini del Mali, dell’Algeria e del Niger. Da allora decadenza e rivolta. Con alleati militari dell’islam radicale. Jihad il nemico. Loro le vittime.

Berberi contro barbari. Dalla Libia caricaturalmente amica dell’Italia, alla demonizzazione dell’ex amico e socio in molti affari di casa nostra. Come sia andata a finire lo sappiamo. O meglio, è nota a tutti la caduta del Rais. Meno sappiamo sulla sua morte con torture e sulle conseguenze che quella scelta occidentale si è lasciata alle spalle. Interessante, per capire, la lettura di un saggio di Vincenzo Gallo, analista dei paesi dell’Africa subsahariana che collabora con l’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo. Uno spunto per ragionare sull’allarmante attualità di quanto sta avvenendo e potrà ancora accadere in Mali e in tutta l’Africa subsahariana.

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Pecunia non olet? Partiamo dalla Libia per una ragione ben precisa. Intanto per i 40 anni di potere e ricchezze petrolifere attraverso cui il regime libico ha potuto costituirsi un arsenale assolutamente temibile. Contatti e affari con molti dei principali produttori europei di armamenti, tra cui alcune compagnie italiane. Alla sua morte, la Guardia di Finanza ha sequestrato, tra gli altri beni appartenuti alla famiglia del rais, il 2% del capitale di Finmeccanica, l’1,25 di Unicredit e lo 0,58 di Eni per un valore stimato di oltre un miliardo di euro. Forte del suo potenziale bellico, Gheddafi, una volta scoppiate le rivolte nel paese scelse la resistenza ad oltranza.

Armati e addestrati. A Gheddafi non mancavano quindi i mezzi per reclutare e armare milizie e mercenari. Molti di essi venivano dal Sahel, in particolare dalle regioni del nord del Mali abitate dalle popolazioni tuareg. La scelta non era stata casuale. Nelle fila dell’esercito libico, infatti, i membri di questi gruppi erano presenti già da molti anni ed il loro numero era cresciuto assieme alle rivolte scoppiate a più riprese nelle regioni del nord del Mali. Già negli anni 60 e 70 e, più recentemente dal 2006 al 2009, il popolo tuareg, marginalizzato dal governo centrale maliano, ha tentato con la ribellione di esercitare il diritto all’autodeterminazione.

Autodeterminazione. Allora come oggi, l’obiettivo di questo popolo nomade è la costituzione di uno stato indipendente formato dalle tre regioni di Timbuktu, Gao e Kidal. Gheddafi aveva sempre giocato anche su queste spinte indipendentistiche, con un ruolo decisivo nell’esplodere di rivolte e insurrezioni in diversi paesi africani vicini ai suoi interessi strategici, nel Shel in particolare. Le armi libiche hanno alimentato conflitti in Chad, Angola, Guinea-Bissau, Eritrea, Mozambico, Namibia e Zimbabwe. Strumenti militari e ideologia: il World Revolutionary Center, ad esempio, sorta di “università” delle guerre rivoluzionarie con campi di addestramento.

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Libia “liberata”. Le autorità statali di Tripoli o di Bengasi, ammesso esista realmente uno Stato unitario, e le forze di sicurezza sono tuttora incapaci di esercitare il controllo del territorio. Ce lo dicono gli attentati continui, ultimi l’agguato al console italiano e prima ancora l’assassinio dell’ambasciatore Usa a Bengasi. Disordine e crisi economica fanno fiorire il contrabbando. Di armi soprattutto. Narra Vincenzo Gallo come un Ak-47 Kalashnikov si vende a 800 dollari, mentre per una mitragliatrice antiaerea montata su un fuoristrada pick-up si pagano fino a 10.000 dollari. Un arsenale fornito in parte dall’occidente ai ribelli e ora sul libero mercato.

Libero mercato. La presenza di esponenti degli estremisti islamici del Al-Qaeda in the Islamic Maghreb nel nord Africa -l’Aqim- ha contribuito a fare della regione un porto franco per un numero crescente di trafficanti e di compratori. Le armi contrabbandate finiscono nelle mani di diversi gruppi terroristici responsabili di stragi e attentati in diversi paesi. Ad esempio i feroci attentati contro la minoranza cristiana in Nigeria dove i gruppi di Boko Haram, impegnati da anni in una lotta feroce contro il governo centrale, vogliono imporre la Sharia nel paese. Secondo il Ministro della Difesa nigeriano Olusola Obada, quelle armi vengono dalla Libia.

Risico mortale. La lista dei compratori non si limita ai paesi confinanti. Anche i miliziani ribelli che lottano contro il regime di Bashar Al-Assad in Siria e gli estremisti egiziani hanno certamente fatto incetta di armi libiche, tra cui i temutissimi missili terra-aria SA-24 di fabbricazione sovietica.
Si può anche dire che l’intera regione dell’Africa settentrionale è ancora alle prese con gli effetti della caduta dei regimi dispotici imposti della primavera araba. Per il Mali, l’effetto dirompente è venuto in primo luogo dai tuareg arruolati nell’esercito libico, tornati in patria con una grande esperienza militare e con gli equipaggiamenti e le armi degli arsenali di Gheddafi.

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[b]Azaward libero.[/b] Troppe milizie operanti nelle regioni storicamente in lotta col governo di Bamako e, come prevedibile, maggiori spinte indipendentiste. Nel 2011 i separatisti creano il “Mouvement National pour la Libération de l’Azawad”, l’Mnla, con a capo un ex colonnello dell’esercito libico.
Accusati dal governo maliano di legami con i gruppi terroristici di Aquim, l’Mnla ribatte che gli obiettivi e l’ideologia dei fondamentalisti siano totalmente incompatibile con la tradizionale
moderazione e tolleranza religiosa che il popolo tuareg ha dimostrato nella sua storia. Ma dalla capitale Bamako si gioca la carta della presunta affiliazione dei tuareg ai terroristi.

Geopoltica. Ripasso professorale. Le popolazioni tuareg sono gli abitanti storici delle regioni interne del Sahara oggi comprese nel Mali, Algeria, Niger e Libia. Queste tribù hanno da sempre controllato i traffici commerciali nel deserto e oggi si sono adattati anche a forme di banditismo per beneficiare del contrabbando di armi, droga e quant’altro. Probabile anche il coinvolgimento in alcuni sequestri di persona a scopo di estorsione la cui liberazione è stata negoziata con tutta probabilità dai membri dell’Aquim. Ma contrariamente ai gruppi di ispirazione islamica alleati militarmente, i Tuareg non vogliono la Sharia ma solo l’indipendenza.

Interessi divergenti. La contrapposizione di interessi tra Tuhareg e jihaddisti s’è sviluppata nel corso del 2012, mentre progrediva l’espansione territoriale della guerriglia nelle regioni di Timbuctu, Kidal e Gao. Colpi di stato in Mali e interventi minacciati da Nazioni Unite e Unione Africana prima delle decisioni francesi. Intento il controllo delle aree conquistate è passato di fatto alle milizie di Ansar Dine. I gruppi armati di Ag Ghali, infatti, grazie ai collegamenti con l’Aquim e alle dotazioni di armi e mezzi finanziari, si sono già insediati stabilmente nei territori occupati imponendo la Sharia e obbligando le donne a indossare il velo e gonne lunghe.

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L’alleanza che uccide. L’azione militare di Parigi, anticipando quello che loro sperano possa essere presto l’intervento di contingenti militari delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana, aiuta proprio le forze jihadiste. Le milizie tuareg, benché addestrate e armate, non hanno alcuna possibilità di resistere all’avanzata di truppe straniere senza l’apporto militare e finanziario che solo Ansar Dine è in grado di dare. E la partecipazione al conflitto dell’Aqim attraverso Ansar Dine non sarà priva di conseguenze. L’insediamento da guerre occidentali dei fondamentalisti islamici in queste aree sta sconvolgendo non solo i costumi, ma i tradizionali equilibri sociali e politici.

Con gli Uomini Blu. Il popolo tuareg, da sempre padrone del deserto ha più volte dimostrato di non voler sottostare ad alcuna autorità, sia essa coloniale o statale. La ribellione è stata lo strumento con cui hanno tentato invano di affrancarsi da Bamako e domani sarà per qualsiasi altro padrone. O l’alleato islamista di oggi o il colonialismo pacificatore di ritorno domani. In questo scenario sempre più complicato i tuareg sono caduti in trappola. Per mantenere le loro posizioni ed il controllo
dell’Azawad si sono serviti degli estremisti islamici di Ansar Dine e dell’Aqim. Fornendo il pretesto per l’intervento militare attuale. Loro che chiedevano solo la terra dei padri.

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