Sempre più zittiti, perseguitati, incarcerati. Si profila ogni giorno più dura la battaglia di giornalisti, avvocati e difensori dei diritti umani in Iran a più di trent’anni dalla Rivoluzione che pose fine al regime dello Shah Reza Pahlavi. Una rivoluzione che, in quanto a libertà di espressione, sembra ricalcare in pieno i contorni della deposta monarchia. E’ quanto emerge dal nuovo rapporto presentato qualche giorno fa a Ginevra, durante il Consiglio dei Diritti Umani, dal relatore speciale dell’Onu in Iran, Ahmad Shaheed.
In vista delle elezioni presidenziali di giugno, Shaheed traccia un quadro inquietante per la libertà di espressione nella Repubblica islamica. Candidati d’opposizione ancora in carcere – Mir-Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, accusati di aver guidato le proteste dopo i risultati delle elezioni del 2009, sono agli arresti dal 2010 – e nessun nome ancora avanzato tra i riformisti, oltre alla mancanza di un’autorità elettorale indipendente che supervisioni il voto. A meno di cento giorni dalla scelta, sembra che la partita la giocheranno Guardie rivoluzionarie contro candidati conservatori, se non conservatori vicini alla Guida Suprema Khamenei e ultra conservatori tra le fila del presidente uscente Ahmadinejad.
Ma la repressione non è destinata solo agli attori politici. Nel mirino delle autorità ci sarebbero soprattutto i giornalisti e gli attivisti, specie se appartenenti alla stampa considerata “antirivoluzionaria”. I giornali riformisti Arman, Etemaad, Shargh, Asseman Weekly e Bahar hanno già perso 12 dei loro giornalisti in una retata delle forze di sicurezza iraniane lo scorso gennaio. Accusati dall’associazione dei giudici di essere i “portavoce dell’Occidente”, rappresentano una minaccia soprattutto per il fatto di aver parlato apertamente delle difficoltà economiche in cui versa il Paese per le sanzioni imposte dai paesi occidentali a fronte del programma nucleare. Secondo il CTJ, un’organizzazione non profit dedita alla difesa della libertà di stampa, l’Iran è la più grande “prigione per giornalisti al mondo”: a seguito delle proteste dell’Onda Verde del 2009, i reporter arrestati erano stati più di 40.
Una sorte ancora più dura spetta ai netizen e ai blogger che possono anche incorrere nella pena capitale per le loro attività online. Stando alle segnalazioni di Reporter senza Frontiere, il web developper Saeed Malekpour residente in Canada è stato condannato a morte per “agitazione antigovernativa”. Stessa sorte per lo studente Vahid Ashgari, l’amministratore web Ahmadreza Ashempour e l’umorista Mehdi Alizadeh, che nel 2012 sono stati condannati a morte dopo essere stati segnalati alle autorità dal “Centro per la sorveglianza del crimine organizzato”, un’entità creata illegalmente nel 2008 dalle Guardie Rivoluzionarie. Il blogger Sattar Beheshti, invece, è morto lo scorso novembre nel carcere di Kahrizak. Ufficilamente, per una forma di choc in seguito all’arresto. Ufficiosamente, per aver subito minacce e torture.
E’ in crescita anche il numero degli avvocati per i diritti umani e degli attivisti detenuti nelle carceri di tutto il paese, soprattutto nella famigerata prigione di Evin. Qui, nel novembre scorso, nove detenute politiche hanno dato il via a uno sciopero della fame per protestare contro abusi e perquisizioni fisiche perpetrate dalle guardie carcerarie. Ispiratrice dell’azione è stata Nasrin Sotudeh, premio Sakharov per la libertà di pensiero e avvocato di oppositori politici iraniani condannata nel 2010 a sei anni di detenzione per “propaganda contro il sistema”. Al termine della pena, non potrà lasciare il paese né praticare la sua professione per 20 anni. Nena News.