Due marò in cambio di un ambasciatore

Il nuovo import/export made in Italy, vale a dire il ‘capolavoro’ diplomatico di Mario Monti e del ministro degli Esteri Giulio Terzi. Italia-India ai ferri corti

Due marò in cambio di un ambasciatore
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20 Marzo 2013 - 17.41


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di Augusto Rubei

Per Mario Monti era apparso fin da subito come il banco di prova internazionale. Una scommessa da non perdere, di alto profilo, perché giocata con una delle più grandi democrazie mondiali. E la pedina sulla quale contare, sotto certi aspetti, era (ed è ancora oggi) un vero e proprio testimonial della diplomazia.

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Chi meglio dell’ex ambasciatore a Washington. Chi meglio del ministro degli Esteri Giulio Terzi avrebbe potuto gestire una crisi di dimensioni globali tra India e Italia, che nelle ultime settimane ha coinvolto direttamente anche i vertici europei di Bruxelles spingendo persino il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a dire la sua sulla questione.

Il risultato, stando agli ultimi sviluppi, è però stato deludente: due marò in cambio di un ambasciatore, in un certo senso – direbbero i meno riguardosi – la nuova politica import/export del governo italiano. Massimiliano Lattore e Salvatore Girone non faranno infatti ritorno a Nuova Delhi allo scadere del permesso speciale per il voto ottenuto a febbraio. Lo ha comunicato la stessa Farnesina nei giorni scorsi, proprio mentre – il caso vuole – le indagini della procura di Napoli sullo scandalo tangenti Finmeccanica facevano cadere le prime teste tra le fila dell’ex aviazione militare indiana.

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Una posizione adottata quasi a sorpresa, che ha finito per trascinare l’Italia in un diverticolo senza via d’uscita. Perché il faccia a faccia si è aperto con uno dei Paesi chiave del Brics, detentore della bomba atomica e fiorente potenza economica con un tasso di crescita annua del Pil pari all’8,4% nel 2011, con il quale solo un anno fa l’ex presidente di Confindustria Emma Marcegaglia contava di raggiungere un interscambio commerciale di 15 miliardi di euro entro il 2015.

Non proprio una bella notizia per un Paese come il nostro, sul piano industriale e commerciale oramai immobile. Forse proprio per questo lunedì il ministero degli Esteri è tornato a puntualizzare i motivi della decisione presa e – parlando “a nome del governo” – ha sì rivendicato con forza le proprie ragioni giuridiche (“il rientro in India dei Fucilieri sarebbe stato in contrasto con le nostre norme costituzionali”), ma ha anche aperto al dialogo ribadendo “la propria convinta volontà di pervenire a una soluzione della vicenda, avviando ogni utile consultazione” con Nuova Delhi “nello spirito delle amichevoli relazioni che desidera mantenere con l’India”.

Un messaggio a tratti conciliante, giunto però dopo una sentenza senza precedenti della Corte Suprema indiana che, al culmine di una tesissima udienza durata 45 minuti, nelle prime ore del mattino aveva di fatto già negato la piena immunità diplomatica all’ambasciatore italiano Daniele Mancini con l’accusa di non aver rispettato la dichiarazione giurata presentata a sostegno della richiesta di permesso per i due militari.

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L’impressione e’ che l’Italia abbia voluto evitare di replicare in modo da non far salire ulteriormente la tensione. Forse perché ha capito che il vero segnale Nuova Delhi più che a Monti lo sta dando all’opposizione interna, infuriata dagli sviluppi del caso, nel tentativo di placarla. Non a caso la maggior parte degli “annunci” in arrivo dall’India sono provenuti da fonti anonime e nessun esponente di governo, ad oggi, si è infatti esposto a minacciare direttamente iniziative che violano i trattati internazionali.

L’unica eccezione è stata il congelamento dell’arrivo del nuovo ambasciatore indiano a Roma, Basant Kumar Gupta, nel quadro di un ridimensionamento della presenza diplomatica indiana nel Belpaese avviato dall’esecutivo di Manmohan Singh. Ma il fastidio è piccolo. Il vero danno, oltre al dramma che ha coinvolto le famiglie dei due pescatori morti, è l’immagine strapazzata di un Paese che si sente potenza, ma ancora non lo è. Che reclama un ruolo di primo piano nella comunità internazionale mentre continua ad essere guardato a vista persino dai suoi vicini in Europa. Che tenta di emulare gli Stati Uniti nel modo meno democratico possibile, facendo della beffa subita al Cermis nel ’98 un atto di rivalsa verso un Paese amico. Per una volta avremmo potuto imparare e dare l’esempio, invece abbiamo deciso di perdere l’occasione.

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